Brand storici vs IP originali – Le nuove idee hanno poco successo?
A guardare le classifiche dei titoli più venduti su PC e console negli ultimi anni la tentazione di dichiarare il primato dei franchise consolidati rispetto alle nuove proprietà intellettuali è piuttosto forte. Questo perché nel corollario dei grandi best seller va costituendosi una maggioranza sempre più determinata da esponenti di saghe storiche, sequel di vere pietre miliari del gaming che affondano le proprie radici in ere videoludiche ormai trascorse.
Non serve neppure scomodare l’idraulico italiano più famoso al mondo, che da icona intramontabile di Nintendo è assurto a icona del videogioco tout court. Se infatti il brand di Super Mario conta ad oggi più di 100 giochi appartenenti all’universo ideato da Shigeru Miyamoto, anche grazie a contaminazioni di genere che sono andate ben oltre l’originario platform 2D, la comparsa di nuove fiorenti IP pare essere adombrata anche da saghe altrettanto longeve ma decisamente meno “ricche”. Basti pensare a franchise come Final Fantasy, Resident Evil, Call of Duty, Pokémon e Zelda, tanto per fare qualche esempio.
Pur considerando l’ovvia presenza di uno zoccolo duro di appassionati disposti ad acquistare sempre i prodotti di cui sono fan, l’impressione è che sia particolarmente difficile coniare saghe videoludiche di successo al giorno d’oggi. O almeno, che – salvo eccezioni di sorta – a smuovere il mercato siano sempre i soliti noti: ennesimi capitoli di serie ben cementate nell’immaginario collettivo. Ma è davvero così, o alle volte si rischia di confondere il successo di un videogioco con la sua storia?
Diversi tipi di successo
Nella classifica stilata da GameIndustry.biz sulla base dei dati ISFE tra i videogiochi più venduti nel primo semestre del 2021 è possibile ritrovare una distribuzione piuttosto eterogenea. Vi è, in primo luogo, una non trascurabile incidenza di tutti quei titoli predisposti per avere una certa lungimiranza strategica che hanno generato community particolarmente attive: stiamo parlando di Rainbow Six: Siege, Minecraft e Animal Crossing: New Horizons, benché quest’ultimo non sia stato neppure supportato a dovere da Nintendo.
Discorso a parte è poi quello del sempiterno GTA V, il cui successo è prima di tutto un fenomeno di massa dovuto anche a cause esogene, tra cui lo sdoganamento del comparto online e la sua proliferazione su Twitch e altri social media. Da una parte, insomma, il magnetismo di una campagna single player che a 7 anni di distanza ha ancora molto da dire, dall’altra l’indiscutibile attrattiva di un ecosistema digitale fatto di canali e creators molto coinvolgenti.
Quanto ai brand più familiari è evidente che si possa tracciare una linea di demarcazione che separi i prodotti “ciclici” dal resto del panorama. Per ciclici intendo tanto gli episodi di Call of Duty quanto i vari titoli sportivi, da FIFA a NBA di 2K Games: produzioni a cadenza annuale che – pur non ampliando di molto la propria offerta ludica, o forse proprio a causa di un suo costante mantenimento – costituiscono un punto di riferimento per molti videogiocatori che così, ogni anno, possono mettere le mani sulla “versione migliore” del gioco che preferiscono.
È per tutti gli altri marchi già affermati che occorre una riflessione sui motivi del loro ricorsivo apparire nelle classifiche dei titoli più venduti. Verrebbe quasi da chiedersi, infatti, cosa definisca questa supremazia commerciale a scapito delle nuove produzioni, che di certo – dal canto loro – non solo non mancano, ma di interessanti ne sono previste per gli anni a venire, come Forspoken di Square Enix, Starfield di Bethesda oppure l’enigmatica Pragmata di Capcom.
Situazione, questa, che deve essere ripensata oltretutto alla luce del record stabilito da Elden Ring, il quale risulta la proprietà intellettuale originale più venduta dopo The Division di Ubisoft (2016). Ma anche al netto della preminente autorialità dell’ultimo titolo From, e senza soprattutto riaccendere il dibattito su quanto sia appropriato definirlo o meno il sequel di Dark Souls III, è fuor di dubbio che Elden Ring si faccia carico di una contiguità ludico-estetica che lo rende il più recente capitolo di un filone tutt’altro che emergente: quello dei Souls.
La contingenza storica
D’altro canto, la tendenza – quasi lapalissiana tra le community online – a ricercare il senso di meraviglia nel vasto panorama indie suggerirebbe che ai videogiocatori l’offerta mainstream possa addirittura non bastare. Che, insomma, ci sia domanda anche per le proposte inedite. Eppure i numeri sembrano raccontare qualcos’altro, e cioè che le nuove IP – indie o tripla A che siano – non raggiungono poi molto pubblico. Pur ammettendo che sia solo una minoranza quella in cerca di novità, dobbiamo perciò credere che la storia del videogioco sia destinata ad essere scritta sempre dagli stessi nomi?
Forse vale la pena di soffermarsi proprio sul fattore storico, e sulla prospettiva generata dalla giovinezza del medium rispetto agli altri mezzi di comunicazione. Non è da escludere infatti che il modo in cui si è strutturata l’utenza odierna paghi il debito di un’affermazione culturale tutto sommato improvvisa, che ha visto il videogame passare repentinamente da peculiare diletto di informatici e programmatori a forma di intrattenimento – e di arte – mondialmente diffusissima.
La rivoluzione innescata da Pong e Space Invaders è stata tanto pervasiva quanto subitanea se paragonata al percorso evolutivo che hanno seguito cinema e letteratura, e lo scompenso temporale che ha prodotto non è certo estraneo al nostro modo di concepire il mercato. Del resto, quando pensiamo a franchise come Resident Evil oppure Final Fantasy siamo portati a riconoscergli, se non la paternità, quantomeno il diritto a rappresentare interi generi videoludici in qualità di loro massimi esponenti (benché il primo non sia il capostipite assoluto dei survival horror, né il secondo quello dei JRPG).
Se oggi parlare di genere potrebbe sembrare persino anacronistico, tanto che la categorizzazione dei Game Awards non manca di suscitare perplessità, farvi riferimento come ad un aspetto determinante per la popolarità di queste IP significa ben più che legittimarne il peso storico. Aver coniato formule di successo – divenute in seguito dei canovacci piuttosto gettonati – è un merito che ha precise coordinate temporali, e va a inscriversi proprio in un momento cruciale per la crescita dell’intera industria: quel periodo di grande fermento creativo dato dai tanti traguardi raggiunti sul fronte tecnologico.
La brand identity delle saghe che consideriamo leggendarie è stata forgiata in un tale contesto, caratterizzato da un forte entusiasmo produttivo – dove stupire il pubblico era decisamente più semplice. Ma meno il passato è lontano e più ci si deve fare i conti, e al contrario degli altri media, infatti, il dibattito videoludico risente – sia pure a livello “inconscio” – di un imprescindibile confronto con i grandi nomi che ne hanno fatto la storia. I confini di quest’ultima, benché facili da riassumere sotto l’egida del retrogame, sono ancora sfumati a causa di un distacco insufficiente, e va da sé che la luce dei grandi franchise non possa che risplendere ancora appieno sul panorama contemporaneo.
Il prezzo del futuro
La tendenza ad attribuire un valore in chiave storico-centrica alle più note serie videoludiche ha un impatto rilevante sulle scelte delle aziende che ne detengono i diritti. In primo luogo, questo non fa che orientare le spese di produzione e di marketing: essendo quello dei videogiochi un mercato decisamente competitivo che mal tollera ogni tipo di fallimento, per un publisher è sempre meno rischioso investire in una proprietà intellettuale già affermata piuttosto che puntare tutto su un progetto inedito, il quale potrebbe gettare l’utenza in uno stato di non totale convinzione.
Meno visibili sugli store digitali e con alle spalle uno sviluppo per certi versi trattenuto, le nuove IP vengono così prese in considerazione spesso da fasce marginali del pubblico: nicchie di appassionati che seguono determinati team di sviluppo, o comunque utenti che decidono di impiegare del tempo per scandagliare i cataloghi virtuali delle piattaforme. Mentre dal canto loro, i più recenti capitoli dei marchi già popolari campeggiano vistosamente in cima a quest’ultimi, e non è affatto difficile ritrovarli anche tra le tante pubblicità presenti sul web.
Al di là della logica con cui le software house decidono di allocare le proprie risorse (finanziarie e non), il baluardo rappresentato dalle saghe storiche risulta ancora più imponente considerando il cambio di paradigma che si ravvisa tra le odierne produzioni tripla A. Formule come il game as a service o i gargantueschi open world in stile Assassin’s Creed Valhalla ridefiniscono infatti non solo la grammatica di un gioco, ma con essa anche l’accoglienza da parte del pubblico – non tanto in termini di gradimento, quanto più di discussione.
Messi a confronto, i grandi titoli del passato dimostrano una mancanza di respiro contenutistico che, paradossalmente, può invece aver contribuito alla nascita di veri e propri cult, alimentando suggestioni e speculazioni tra le più varie (basti pensare a quanto altisonante sia tutt’oggi il nome di Silent Hill), quando di contro, le produzioni più moderne – quelle ossessivamente più generose e dal taglio compilativo – tendono a disperdersi in una timida celebrazione dell’eterno presente.
Ma questo, senz’altro, è dipeso anche da un terzo fattore, ossia la quantità di videogiochi prodotti. Se nel 2004 su Steam venivano rilasciati solo 54 titoli, il sensibile incremento rilevato da Statista – che tocca quota 10.394 nel 2021 – rende per un qualsiasi gioco più difficile permanere a lungo nell’immaginario collettivo, ed è superfluo aggiungere che questo svantaggi ulteriormente i nomi per nulla blasonati.
Per tutte queste ragioni, dunque, scalfire il prestigio dei brand già affermati risulta oggi un’impresa tutt’altro che scontata. Ma non si tratta di una supremazia morale delle saghe storiche, quanto piuttosto di un sistema che premia le proposte dalla forte identità dando loro più risonanza, dove la percezione del mostri sacri è tanto più falsata dalla breve distanza temporale che ci separa da essi. Detto altrimenti, il videogioco pare essere ancora troppo giovane per potersi emancipare dal suo passato. Che non resti da attendere una qualche nuova rivoluzione?