Ha senso aspettare così tanto GTA 6?

A più di otto anni dal suo esordio su Xbox 360 e PlayStation 3, GTA V è divenuto quello che si potrebbe definire senza timore di smentita un vero e proprio fenomeno di massa. Il quinto capitolo canonico della celebre serie targata Rockstar Games ha infatti nel tempo agglomerato una fanbase sempre più ampia, arrivando a colonizzare ben tre generazioni di console considerando la versione next-gen da poco rilasciata, pronta a sconfinare anche sulle ultime ammiraglie di casa Sony e Microsoft.
Si tratta di un evento più unico che raro all’interno del panorama videoludico, un successo a cui verrebbe difficile riconoscere alcun precedente storico tralasciando gli MMO, i live service e, più in generale, alcune tipologie di giochi competitivi, che rispondono proprio in termini di design ad una progettualità a tal punto lungimirante.
Nell’arco di questo ripetuto cambio generazionale, tuttavia, l’interesse per GTA V è andato di pari passo con il crescente hype per il suo diretto sequel, sul quale continua a crescere una quantità spropositata di leak in rete. Non ultimo quello del noto analista Michael Pachter, secondo cui GTA 6 richiederebbe la bellezza di 500 ore di gioco e sarebbe ambientato sia in America – con una mappa comprensiva di tutte quelle viste sino ad ora – sia in Europa.
Visto il perdurare di questa trepidante attesa, sarebbe difficile non ricondurre la reticenza ostentata da Rockstar Games alla volontà di insistere su di un successo economico inaspettato ed esorbitante. Ma cos’altro si cela in questo iato comunicativo, dove persino le rassicuranti affermazioni sullo sviluppo del nuovo capitolo appaiono tanto vaghe e nebulose? Ha davvero senso aspettare GTA 6 in funzione di quello che, ad oggi, rappresenta la sua cosiddetta brand awareness?
Fenomenologia di un successo intergenerazionale
Gargantuesco open world dal più che ragguardevole livello di interazione, GTA V si è imposto nel mercato videoludico con la sicumera tipica dei grandi franchise, reinventandosi al contempo con una strategia narrativa insolita per gli standard di allora; e quello di cui gode oggigiorno – bisogna riconoscerlo – è un successo tutt’altro che immeritato. In un certo senso lo si potrebbe definire l’opera magna di Rockstar, la realizzazione di un sogno inseguito per anni: quello di creare un mondo denso di contenuti, dove potersi immergere completamente e intrattenersi in una pluralità di piacevoli divagazioni per le grandi strade di un’America virtuale.
Pensare che l’indubbio valore del prodotto basti a giustificare una diffusione intergenerazionale come questa, tuttavia, sarebbe quantomeno ingenuo. La fenomenologia del successo di GTA V risponde anzi anche ad alcune caratteristiche esogene, in primis la sua popolarità sulle piattaforme di streaming. Nell’ultima settimana di marzo 2022, infatti, il titolo di Rockstar Games ha continuato ad oscillare tra i videogiochi con maggiore audience su Twitch, portando avanti un trend che nella sua interezza non mostra segni di cedimento nemmeno di fronte alla pubblicazione di titoli molto attesi (come ad esempio Elden Ring).

Fattore chiave di questo trionfo mediatico è senza dubbio la presenza del comparto multiplayer, introdotto – con non poche criticità tecniche – ad un mese dal rilascio del gioco base. Tra corali rapine in banca e competizioni di ogni sorta, GTA Online offre infatti da anni un’opzione imprescindibile per chi desidera lanciarsi in furiose scorribande nei malfamati quartieri di Los Santos in compagnia di qualche amico.
L’aggiunta della mod FiveM, poi, non ha fatto che consacrare il traguardo segnato dall’esperienza multiplayer, prestandosi a definire una tipologia di content particolarmente indicato per Twitch: il role play. In questa modalità, gli utenti possono finalmente giocare di ruolo, interpretando il proprio avatar secondo le linee guida prestabilite da chi gestisce il server ed infondendogli una personalità, anche grazie all’ausilio della chat vocale. Inutile dire che, in un mondo dove l’intrattenimento digitale passa soprattutto da questi canali, le possibilità offerte dal role play in GTA Online rappresentano quasi una nuova frontiera: il compimento di un gioco metanarrativo squisitamente internettiano.
Un hype sovradimensionato?
Con un successo protrattosi tanto a lungo nel tempo, la fama del brand Grand Theft Auto ha raggiunto proporzioni inedite, raccogliendo gli entusiasmi di diverse generazioni di videogiocatori. Se da un lato ciò ha permesso all’opera di Rockstar di istituire una vera e propria egemonia culturale, nella cui orbita gravitano gli interessi di moltissimi content creator, dall’altro, le aspettative circa la prossima mossa della software house statunitense risultano perlomeno deformate proprio a causa dell’eccessiva dilatazione temporale.

L’hype per GTA 6 è in una certa misura fuorviato poiché riflette un successo frutto di contaminazioni e dinamiche inattese tanto per il pubblico quanto per gli stessi sviluppatori. E questo rende a sua volta la possibilità di un more of the same più insidiosa che mai; benché non sia da condannare in quanto tale, l’idea di un capitolo semplicemente migliorato, più grande o ludicamente più generoso del precedente creerebbe un innegabile senso di delusione vista la differenza di impatto mediatico. Senza qualche stravolgimento rivoluzionario, il solo lancio al day one non può certo ripagare di tutto il clamore venuto ad accumularsi in questi otto anni.
D’altro canto, è fuor di dubbio che Rockstar stia valutando con estrema attenzione quali carte giocarsi, in che modo, dunque, integrare sin da subito la componente online, che sarebbe un errore gravissimo considerare come stand alone. Questo però non costituisce alcuna garanzia, considerando che, storicamente, la punta di diamante del team di sviluppo è sempre stata rappresentata da un primato tra le esperienze single player, quelle dal piglio narrativo prepotente, lontane dal modello game as a service.
La ricerca della viralità
Se c’è però un elemento comune a tutti (o quasi) i titoli di successo, un tratto che ne caratterizza, e in certi casi riassume, la presa sul grande pubblico, questo può essere individuato nell’ergonomia digitale degli stessi: nella cosiddetta viralità. Videogiochi come Among Us e Rust, ad esempio, hanno conosciuto una seconda primavera proprio con la diffusione su Twitch da parte di streamer piuttosto noti, guadagnandosi schiere di giocatori incuriositi dalla “moda del momento”.
Lo si è visto in maniera ancora più lapalissiana con Minecraft, che è diventato nel tempo un altro fenomeno di massa, e che ancora oggi vanta una user base solidissima. L’appeal generato dalla moltitudine di contenuti sul web – eventi, guide e consigli, tier list, speed run, meme, ecc. – costituisce un asset importante a cui Rockstar dovrebbe puntare per la riuscita di questo epocale avvento, come del resto dimostra la capacità di GTA V di rimanere onnipresente tanto nelle classifiche dei titoli più giocati, quanto nei topic dei vari social network.

La viralità ha però un problema: è imprevedibile, caotica, e per quanto si possa tentare di innescarla con oculate scelte di marketing, sembra rispondere in definitiva più alle leggi della casualità. La formula magica, insomma, non esiste, e nel tentativo di redigerne una ci si potrebbe scontrare con la volatilità del tempo che avanza: quel che è virale oggi non è detto che lo sia anche domani.
Per questo è difficile che GTA 6 possa avere fin da subito un successo roboante, in linea con le aspettative: benché al team di Rockstar non manchi certo il know how, è evidente che la risonanza del suo approdo nel panorama andrà probabilmente crescendo man mano che assumerà i tratti di un cult, come è stato per il suo predecessore. Ma i cult si rivelano tali solo a distanza di anni: la loro è una viralità, per così dire, atemporale.