Objection! Il peso storico di un videogioco

“Era meglio prima?” Si domandava J-Ax una decina di anni fa in una sua canzone, e non aveva tutti i torti nella risposta. Da adulti ci si rende conto di come anche la propria generazione tende a esaltare il passato e sminuire il presente, senza fare eccezioni neanche per il mondo videoludico.
Complice la cassa di risonanza social, viviamo in un periodo dove ogni minimo difetto in un gioco può essere fonte di una critica eccessiva, seguita da un effetto nostalgia che va a esaltare ogni videogioco del passato, ricordando solo prodotti perfetti.
Un’attenta analisi rivelerebbe che si tratta di un’esagerazione in entrambi i casi, ma per i giochi del passato sorge una questione ulteriore: il loro peso storico.
Ma quanto a lungo può valere l’impatto che un titolo ha avuto sul mondo videoludico? Proviamo a sciogliere la matassa in questo nuovo numero di “Objection!”
I migliori giochi di sempre?
Intorno alla metà degli anni 2000, quando l’era digitale iniziava a prendere piede, alcuni videogiochi degli anni ’90, complici anche i primi siti che pubblicavano recensioni, venivano considerati come opere perfette.
Ad esempio, The Legend of Zelda: Ocarina of Time è stato considerato per anni come il miglior videogioco di sempre, quando gli stessi autori sostengono che si tratti di un’esagerazione dovuta alla nostalgia.
Dopotutto, già il sequel The Legend of Zelda: Majora’s Mask è ritenuto da molti superiore, così come non ci si è posto il problema nell’elogiare il più recente The Legend of Zelda: Breath of the Wild.
Tuttavia, risulta impossibile non tener conto delle innovazioni lanciate nel mondo videoludico da questi titoli, trattandosi di elementi divenuti in seguito uno standard per i videogiochi degli stessi generi.
Basti pensare, ad esempio, a quanto possa risultare invecchiato un MediEvil senza la meccanica del puntamento automatico dei nemici, che nacque proprio con Zelda in quello stesso periodo, oppure al primo Joypad della PlayStation privo di levette analogiche, inserite a partire dal DualShock, mentre il controller del Nintendo 64 inseriva una levetta fin da subito proprio per favorire meccaniche all’epoca innovative, come l’ormai comune spostamento della telecamera.

Sony in quegli anni aveva comunque i suoi titoli iconici, ma se si dovesse prendere uno di questi per paragonarlo a quelli del Nintendo 64, molti sceglierebbero Final Fantasy VII.
“Il gioco che vendette la PlayStation”; il JRPG che ha diffuso il genere in occidente, essendo stato il primo in 3D e il primo con una trama diversa dai canoni, con una strizzata d’occhio al cyberpunk (molto in voga negli anni ’90) per trattare temi mai affrontati prima in un videogame.
In verità, il peso storico di questi titoli comporta un paio di problemi. Il primo è il confronto con il passato: questi titoli sono davvero migliori dei loro predecessori?
L’innovazione videoludica comporta da sempre un problema dovuto a limiti tecnici e di game design, all’epoca ancor più influenti. Portare per la prima volta Mario in un mondo 3D ha dato la possibilità di pensare un nuovo tipo di platform, ma l’hardware del Nintendo 64 ha posto anche dei limiti su alcune features, le quali erano presenti tranquillamente nei titoli precedenti.
Discorso simile per Final Fantasy VII, probabilmente limitato non dall’hardware ma dal game design. L’idea di rendere più fruibile un JRPG in occidente potrebbe aver spinto Squaresoft ad alleggerire alcune meccaniche, sebbene queste fossero già state limate in Final Fantasy IV, V, e VI.
Ponendo il problema di tutto ciò in maniera semplice: se si gioca Super Mario Bros 3 e Final Fantasy VI, c’è il rischio di non aver più voglia di tornare ai capitoli precedenti. Giocando invece Super Mario 64 e Final Fantasy VII, si ha la sensazione che, nonostante l’innovazione, manchi qualcosa rispetto ai predecessori.
È sufficiente l’innovazione per colmare queste mancanze? Proprio qui viene il secondo dei due problemi citati sopra.
Campare di rendita?
Il peso storico di alcuni giochi è indiscutibile, ma quando ormai l’innovazione è diventata una base per tutto il mondo videoludico, ha ancora senso provare l’opera che l’ha introdotta? Quanto a lungo l’innovazione può dare valore al singolo gioco?
L’innovazione può sempre essere compresa se si tiene conto del periodo storico al quale appartiene il gioco in questione, ma per essere apprezzata appieno, bisognerebbe provare quel gioco nel suo periodo di lancio, ed è per questo che un videogioco avrebbe sempre bisogno di qualcosa che permane nel tempo (come, ad esempio, il già citato Final Fantasy VI).
Prendiamo come esempio Doom: uno dei padri dei First Person Shooter (FPS). Una serie arrivata al secondo capitolo del suo reboot, Doom Eternal, al quale molti preferiscono il Doom del 2016, mentre altri ancora ritengono che Doom 3 sia a sua volta superiore agli ultimi due capitoli, ma in quanti oserebbero dire di dover andare a ritroso fino a Doom e Doom II: Hell on Earth? Eppure fu il gioco del 1993 che, assieme a Wolfenstein 3D, diede il via agli sparatutto in prima persona.
Un altro esempio simile potrebbe essere il primo Half-Life, classe 1998. Il primo videogioco nel quale la storia viene narrata interamente in tempo reale, senza l’uso di cutscene, nonché il primo videogioco nel quale si iniziò a sentir parlare di intelligenza artificiale (anche se non è esattamente come sembra).
Un appassionato di videogiochi, nel 1998 si sarebbe potuto accorgere di tutto questo, ma giocando oggi il primo Half-Life, quanto lo si potrebbe apprezzare senza conoscere queste informazioni, o senza avere chiaro il quadro di quell’epoca?
Giocando Half-Life oggi, si potrebbe notare qualcosa che manca, ad esempio, a BioShock? Anche quest’ultimo è un titolo invecchiato di ben quattordici anni, con la differenza di possedere un valore che va oltre l’innovazione dell’epoca, il quale lo rende apprezzabilissimo anche nel 2021.

La saga di Half-Life ha comunque il pregio di essere risultata innovativa in ogni suo capitolo, ma è anche vero che gli sviluppatori di Valve Software si sono presi il loro tempo tra un capitolo e l’altro, e non tutte le software house condividono il loro stesso obiettivo al punto di poterselo permettere.
Soprattutto al giorno d’oggi, con i costi di produzione e la fatica necessari per sviluppare un videogioco moderno (oltre ai ritmi elevati della produzione videoludica), non si può chiedere qualcosa di innovativo ad ogni nuovo titolo.
Eppure sulla produzione videoludica grava il peso della critica che vorrebbe ogni volta un’innovazione importante; una critica errata perché l’innovazione non è sempre necessaria.
Un esempio recente è Resident Evil: il capitolo più innovativo della saga è sicuramente Resident Evil 4, che fu il primo videogioco a introdurre la telecamera “over the shoulder”, divenuta in seguito la base per tutti i videogiochi action.
Non solo: Resident Evil 4 ha anticipato di molti anni anche una meccanica che ha preso piede con The Last of Us, quella del protagonista con un partner, oltre ad aver migliorato il genere survival horror con altre features minori, come quella dei nemici che non restano più sempre bloccati dalle porte.
Tuttavia, il quarto capitolo della saga ha anche dei difetti evidenti se confrontato con i tre capitoli precedenti, ovvero l’essere molto più action che survival horror sia nel gameplay che nella direzione artistica.
Paradossalmente, giocando Resident Evil 4 al giorno d’oggi, si notano molto meno i pregi e più i difetti.

Non sempre il “more of the same” è sufficiente per andare avanti, ma il valore assoluto di un videogioco non può essere sempre sovrastato da quello di un titolo del passato semplicemente perché quest’ultimo è stato innovativo per la sua epoca.
Resident Evil 5, ad esempio, non è sufficiente per questa saga. Nonostante abbia i suoi pregi, finanche unici per il genere e per la serie di Resident Evil, presenta molte caratteristiche scimmiottate da Resident Evil 4 e ne alimenta i difetti. Resident Evil VII e Resident Evil Village, invece, nonostante non si inventino nulla, sono proprio qualcosa che serviva alla saga (nonché protagonisti dello scorso numero di “Objection!”)
Molti sostengono che questo nuovo corso ha poco a che fare con Resident Evil, quando in realtà il VII e Village sono molto più Resident Evil rispetto al quarto capitolo, nonostante l’innovazione che portò nel 2005. Ma se quella innovazione oggi la si trova dappertutto, cosa resta al valore del singolo Resident Evil 4?
“Così ebbe inizio l’età del Fuoco. Ma presto le fiamme svaniranno…”
L’assenza più grande, al giorno d’oggi e non solo, è qualcosa che va oltre i videogames e riguarda l’effetto nostalgia in generale: è l’assenza del coraggio di dire che si va avanti, che sono stati fatti molti progressi, e che non tutto era meglio prima.
Sicuramente si riesce ad ammettere che l’innovazione videoludica è andata avanti, così come avanti è andato anche l’effetto nostalgia che rischia di offuscare il giudizio sui nuovi videogiochi.
L’esempio più recente è Dark Souls. I “Souls” sono stati la fiera del “era meglio prima”, quando in realtà Hidetaka Miyazaki ha sempre voluto evolvere il suo stile anche passando per titoli diversi (e sicuramente lo farà ancora con Elden Ring).
Esce Dark Souls? “E’ meglio Demon’s Souls, è più difficile.” Dark Souls II? Oggettivamente, è meglio Dark Souls. Bloodborne? “Eh ma Dark Souls II ha più varietà.” Dark Souls III? “Troppo ispirato a Bloodborne! A questo punto, è meglio Bloodborne.” Per concludere, il “meglio prima” definitivo, per chi conosce il PvP di questi giochi: Dark Souls Remastered? “Questa cosa del poise non la ricordavo così squilibrata… forse è meglio l’hyper armor di Dark Souls III.”

Il problema del peso storico nei videogiochi può diventare più grave di quanto descritto nell’articolo, andando a causare un luogo comune guidato dal puro effetto nostalgia secondo il quale non fanno più i videogiochi di una volta.
Semmai dovesse capitare una sensazione del genere, il problema non sono i videogiochi, ma la persona in questione che, semplicemente, ha perso interesse. Difficile, in tal caso, trovare titoli che possano riaccendere l’entusiasmo; tanto vale dedicarsi a qualcos’altro.
Con questo vi saluto, vi lascio il link ai numeri precedenti, e vi do appuntamento al prossimo numero di “Objection!”