Stefan Zweig e quel gioco dolceamaro della seduzione
Passigli riscopre un piccolo grande classico della letteratura europea del primo Novecento, dove la schermaglia amorosa è occasione di riflessione sull’esistenza. Pp. 108, Euro 9,90.
Può un’intera vita decidersi nell’arco di una sola giornata, e restare per sempre condizionata dal ricordo di quelle ore febbrili? L’esistenza, si sa, è un meandro di passioni, illusioni, desideri, rinunce, violenze, di cui molto spesso si resta in balia, aprendo la strada a situazioni coinvolgenti, vissute con trasporto e un sottile senso di rabbia; situazioni che illuminano aspetti inconsueti del nostro modo di essere, e ci si scopre, ad esempio, inaspettatamente deboli, o altrettanto forti. Difficilmente la vita, per essere autentica, indulge troppo sul sentimentale, e si tinge quindi dei colori più cupi del confronto psicologico che mira al dominio sull’altro, a una seduzione che appaga soltanto a metà, ma soprattutto al piacere dolceamaro di soddisfazione dell’Ego, anche solo temporaneamente. Un sentire diffuso nell’Europa a cavallo fra le due guerre mondiali, ormai già attanagliata dal “demone della modernità”.
In Ventiquattro ore nella vita di una donna, Stefan Zweig (1881-1942), autorevole esponente dell’ultima stagione letteraria asburgica, ferma sulla pagina una vicenda di passione e disillusione, che ha in sé un andamento romantico, sulla scorta del clima letterario austriaco di Schnitzler e Marai, che però è arricchito e, se vogliamo, reso più adulto da un certo fondo di amarezza, di chiara derivazione americana. Gli anni Venti, quando questo romanzo fu scritto ed è ambientato, segnarono la presenza in Europa di artisti e scrittori statunitensi, che in particolare sulla Costa Azzurra cercarono una via di fuga a un malessere che l’American Dream non riusciva a dissipare. Ma la loro presenza fu importante anche per l’influenza che esercitò sulla scena letteraria europea, e portando un vento di novità su una narrativa che ancora guardava all’Ottocento.
Protagonisti del romanzo di Zweig, un uomo e una donna dei quali non conosciamo il nome; le loro esistenze s’incrociano a Montecarlo, nell’atmosfera febbrile e un po’ equivoca del casino. È la donna stessa a raccontare a uno sconosciuto (anch’egli incontrato causalmente in un albergo) l’intera vicenda, alcuni decenni dopo, quasi a volersi liberare di un passato scomodo e decisivo insieme, una sorta di “peccato originale” di cui si è in dubbio se andarne fieri o vergognarsene. Dipanando la vicenda sul filo della memoria, Zweig costruisce un confronto psicologico serrato, e accompagna il lettore fra le pieghe di una lotta contro sé stessi, dell’ebbrezza di inseguire illusioni, delle passioni incontrollate. Senza sentimentalismi o qualunquismo, Zweig rende onore al coraggio di rifiutare la banalità dell’esistenza quotidiana, pur intuendo di andare incontro anche a una possibile delusione, ma che comunque lascerà nei ricordi la sensazione profonda e incendiari di aver veramente vissuto. L’ebbrezza del gioco d’azzardo cattura il protagonista maschile, e lo accompagna perdita dopo perdita, evidente metafora della decadenza e imminente dissoluzione della nobiltà e della borghesia europee di antica tradizione (Luchino Visconti, nel 1973, sull’argomento girerà La caduta degli Dèi). Un ritratto impietoso della mancata realizzazione del Superuomo nietzschiano, stretto fra angoscia e malinconia, e che cerca disperato sfogo nel gioco d’azzardo e nelle avventure d’altro rango. Al suo fianco, un’intensa protagonista femminile, dalle maniere raffinate e dalla sobria civetteria, e al contempo dotata di una forza d’animo e di una pietà non comuni.
Ventiquattro ore senza vinti né vincitori, ma soltanto disillusi, cui resta il bagaglio di un’esperienza unica.
Il romanzo è anche occasione di speculazione sulla persistenza della memoria, una delle fonti più cospicue d’amarezza; amarezza che l’età adulta insegna, o dovrebbe insegnare, ad addolcire. Sullo sfondo del romanzo, gli ambienti raffinati e ovattati della dolce vita sulla Costa Azzurra, quelli stessi frequentati da Fitzgerald, del quale, fra le pagine di Zweig, si ritrova un po’ dell’indolenza.
Scrivendo, Zweig assume uno stile moderno e incalzante, dai periodi brevi, e indulge in intense descrizioni sensuali. Attraverso di esse, ottiene un dilatamento dei tempi, come una fuga musicale, attuato anche attraverso una sorta di montaggio espressivo con la tecnica del découpage, che indulge su descrizioni di parti del corpo quali labbra, occhi e mani, capaci di sprigionare una sensualità senza pari, di suggerire senza svelare completamente; si crea quindi un’atmosfera sospesa, rallentata, tesa all’indagine dell’altro, al soppesare le proprie aspettative, al guardarsi appena indietro. Le descrizioni sprigionano la sensualità di un Watteau o di un Renoir, dai caldi colori e dai soffici movimenti. La grandezza della narrativa di Zweig, e altri come lui, sta nel saper unire la profondità della parola alla bellezza dell’immagine, evocando la vicenda agli occhi del lettore, quasi fosse, in parallelo, anche una pièce teatrale.
Fra le righe di questo raffinato romanzo breve, si può cogliere anche la malinconia che afflisse l’esistenza di Zweig, morto suicida in Sudamerica nel 1942.