La Famiglia, per una ragazza bugiarda

Un romanzo che ruota intorno ad una giovane minorenne, quanto può davvero considerarsi un thriller che riesca a tenere con il fiato sospeso il suo lettore? Parecchio, soprattutto se la protagonista è davvero “Una ragazza bugiarda”, come il titolo del libro scritto da Ali Land.
La famiglia, questa sconosciuta. Per quante persone vale questo modo di dire? Pensiero un po’ lugubre e triste, indubbiamente, ma ugualmente vero e profondo. Ogni persona crescendo realizza e plasma con le sue mani, un rapporto con i propri consanguinei tale che possa essere fonte di ispirazione e di affetto sincero, dalla nascita alla morte del soggetto.
Questo è il principio in linea generale, teorico possiamo dire, ma la pratica poi è tutta un’altra storia. Fino a quando si è bambini, piccoli, molto piccoli, la famiglia rappresenta quel nido caldo, pieno di luce, in cui trovare conforto e protezione: quando si diventa adulti e si leggono i rapporti in maniera diversa, allora la musica cambia.
Si cominciano a comprendere quei piccoli dettagli, quelle sfumature della vita familiare che sicuramente prima sfuggivano alla vista e passavano davanti come ombre: non per eccedere nel disfattismo, ma considerata l’imperfezione di qualsiasi famiglia, i segreti e i drammi che si consumano al suo interno devono rimanere tali, anche se tra i membri prima o poi vengono a galla. Ed è lì che inizia la tragedia.
Ci sono genitori che litigano e si tirano i piatti, ma che quando i figli ancora piccoli chiedono cosa sia successo, la risposta è sempre la stessa: “Al papà / alla mamma sono scivolati di mano”. Poi ti ricordi e capisci che in realtà non era il piatto ad essere caduto, ma era stato lanciato prendendo per bene la mira.
Poi ci sono quei parenti che non vedi MAI, che finché eri un tenero infante ti arrampicavi sulle gambe di zio e zia (o chi per esso), oggi sai che suona già ridicolo di suo doverli per forza vedere solo perché è Natale o perché c’è una festa di compleanno e tu devi rifilare un bel regalo riciclato.
Poi magari hai 16 anni, ti chiami Annie e decidi di denunciare tua mamma alla polizia perché sai che ha ucciso 9 bambini tra i 6 e i 9 anni e quindi non ne puoi più di tacere, è giusto che quella donna (anche se di tua madre si tratta) venga messa in carcere e punita per le azioni folli e crudeli compiute.
Peccato che queste azioni così violente come la tortura psicologica e fisica a cui è stata sottoposta Annie fin da bambina, le abbiamo lasciato addosso delle cicatrici profondissime: non solamente quelle che riporta sul costato, ma soprattutto quelle che vanno più in profondità, che bruciano e che stanno vicine al cuore. Tanto da volerle far cambiare nome ed essere inserita in una famiglia in affido, fin quando non terminerà il processo contro sua madre.
Da Annie si trasforma in Milly, ma questo cambiamento è tanto complicato quanto doloroso: la famiglia che la accoglie in casa lo fa solo per un periodo che è “a scadenza”, la figlia di questi due genitori è tremendamente gelosa e poco incline al fatto di dover accettare per l’ennesima volta “una finta sorella” e la madre è completamente assente, presa dai suoi corsi di yoga e dal mix di alcool e antidepressivi.
L’unico in grado di sollevare Milly da questa complicata situazione e di prepararla ad affrontare il processo contro la madre biologica, è il padre di famiglia, Mike, che sembra essere animato da uno spirito generoso e parecchio viziato dal suo lavoro, in quanto psichiatra. Per Milly capire dove termina il legame che si crea tra medico / paziente e quello a cui lei mira di più, ossia il legame padre / figlia (anche se legami di parentela a tutti gli effetti non ce ne sono), è complicato.
Ancora più difficile risulta per la protagonista il distacco completo da una madre / mostro, che ha compiuto su di lei in primis e sulle sue vittime in secundis, le più atroci violenze fisiche e psichiche, andando a condizionare Annie / Milly dentro nel profondo: forte il timore di poter ereditare lo stesso gene malato della madre, come ugualmente molto determinante la paura che attanaglia una ragazza di 16 anni nel dover affrontare in tribunale gli avvocati della difesa, che cercheranno di metterla in difficoltà.
Quando veniamo creati, la nostra vita inizia proprio da lì: nella pancia della mamma, con la quale creiamo un legame fin dal primo nanosecondo in cui l’ovulo viene fecondato e di lì, tutta una crescita. Ci si può credere oppure no, e pur non rappresentando una scienza esatta, il rapporto con i propri genitori è davvero qualcosa che va oltre le semplici parole: proprio per questo è così complicato da mantenere sempre idilliaco e pacifico, per questo le delusioni in famiglia sono le più cocenti e difficili da digerire e perdonare.
Quando poi si tratta di una casistica così estrema, di una mamma che abusa della figlia, storpiandole fin dai primi anni quel concetto di amore materno che serve al bambino / bambina per avere una guida anche nella sua vita, allora quel legame si rompe, arrivando fino alla denuncia della madre ad opera della figlia, che nonostante l’età così giovane capisce che la donna che le ha donato la vita, la sta togliendo ad altri bambini e soprattutto deve essere fermata, deve pagare per quello che ha fatto.
Un romanzo che analizza un rapporto delicato che diventa tale soprattutto quando una bambina si trasforma in ragazza e poi in una donna, durante quegli anni in cui si cerca il confronto con la propria madre e allo stesso tempo si giunge allo scontro in maniera così rapida da non rendersene conto. Non si può prescindere dai propri legami di sangue, ma all’occasione li si può strappare senza porsi troppe domande.
Rebecca Cauda