“Così crudele è la fine”, disegnata da Mirko Zilahy

Nel suo ultimo romanzo “Così crudele è la fine” (edizioni Longanesi), Mirko Zilahy ci fa ripiombare nella Città Eterna, dove l’oscurità ha preso il sopravvento per l’ennesima volta.
Il lavoro può rappresentare per tutti ugualmente croce e delizia, riempiendo la vita ogni giorno. Può dare molte soddisfazioni, può infliggere dolori irreparabili, può far crescere, può stufare e spingere al cambiamento su un piano personale e / o professionale.
Quando il tuo lavoro comporta la creazione di un contatto con le menti degli assassini, il discorso prende una piega diversa: questo perché non solo ti ritrovi a mettere a rischio costante la tua vita (e quella di chi ti circonda), ma anche e soprattutto perché il tuo impegno sarà volto a (tentare) di capire i soggetti più pericolosi che si possano incontrare, magari anche violenti, che rischiano di entrare nella tua mente per non uscirne più.
Enrico Mancini è esausto: Roma è piombata violentemente nel caldo afoso e che odora di inferno, tipico estivo, la sua vita non lo soddisfa più perché il lutto da cui sta cercando di uscire non lo vuole lasciare in pace nemmeno un secondo e a poco stanno servendo le sedute di psicoterapia, che dovrebbero liberarlo da questo peso che gli sta straziando l’anima.
Ed è in questo momento che il suo lavoro di profiler criminale gli tende un’ancora di salvezza (se così la si può definire): la Città Eterna è nuovamente teatro di plurimi omicidi da parte di una mano inesperta, che sembra agire senza un piano ben preciso, ma caotico, avvolto nella nebbia e quindi ancora più intricato da comprendere.
Enrico non sa dove lo porterà questo nuovo caso, ma la sua squadra riesce nuovamente a coinvolgerlo in un turbinio di stradine e nei vicoli più bui di Roma, per braccare chi sta uccidendo apparentemente dei soggetti a caso, mutilandoli e offrendo ogni volta una scena del crimine sempre diversa, spesso più macabra e violenta.
Leggendo l’ultimo romanzo di Mirko Zilahy, l’afa e la calura estiva sembrano trasudare dalle pagine e insieme suggeriscono un senso di claustrofobia che appartiene pienamente alla storia delineata nel romanzo, con i suoi personaggi e il suo pilastro intorno cui ruota tutta la vicenda, appunto il profiler Enrico Mancini.
Tirando le somme, lui è la rappresentazione di un qualsiasi essere umano, uomo o donna che sia, che arriva ad un’età in cui non è anziano, ma non è nemmeno più un ragazzino, la sua vita è cambiata e non per scelta sua, sta cercando di risollevarsi dal fango in cui si va ad infilare e sfilare continuamente ed è stanco, stanchissimo.
Questa senso di pesantezza trapela anch’esso dalle pagine del libro, dalle sue camminate intorno ad una Roma che nonostante la calura estiva, sembra buia e priva di riflessi, come se tutta la città fosse stata privata degli specchi.
Il riflesso della propria immagine, la luce che può provenire da uno specchio: la creazione di una figura ugualmente fittizia e reale, che può donare conforto a chi ne è soggetto come può allo stesso modo spaventare e fare in modo che se ne prenda le distanze, per non doverla vedere mai più.
L’essere umano ha in sé una delicatezza intrinseca, fatta di sensi, di corpo e mente e per quanto la si cerchi di nascondere, questa appena viene minata, fa male e può lasciare un segno indelebile. Dalla più tenera età, quando magari privati di quella luce genitoriale, non si sa più a chi si appartiene, non si sa più a chi fare riferimento, a chi chiedere un supporto; ma anche in età più avanzata, quando le certezze che si sono sempre avute sono crollate come se fossero sempre state costruite e conservate all’interno di un castello di vetro che alla minima scossa è andato in frantumi.
Mirko Zilahy ci restituisce un’immagine di Enrico Mancini che è anche un’immagine di noi stessi, colti in un momento di estrema difficoltà, quando nemmeno un contatto umano speciale ci dà quel sollievo di cui potremmo avere bisogno.
Rebecca Cauda