Carceri, figli detenuti insieme alle madri: i primi passi in prigione (parte 4)

Le prigioni rappresentano un micromondo, nel quale le dinamiche e i problemi della realtà esterna implodono all’interno delle mura detentive. Chi viene recluso non porta con sè solo la sua colpa e la sua condanna, ma anche la sua storia, piena di persone, luoghi, affetti, problemi economici, mentali o di salute.
E proprio durante la reclusione, questi problemi tornano a farsi presenti, più vivi che mai. Il tossicodipendente, ad esempio, che entra in carcere, con ogni probabilità, per un reato connesso alla sua dipendenza, non smette di esserlo una volta dentro, ma anzi avrà ancora più tempo per sentire addosso il peso della sua malattia. Per ovvie ragioni, la reclusione non incide solo sulla persona interessata: modifica profondamente le dinamiche familiari e di gruppo, nelle quali era inserita la persona reclusa.
Nelle strutture detentive femminili a subire le conseguenze più dirette della privazione della libertà delle madri sono i figli che fino ai 3 anni di età, vivono in carcere con loro. La legge per questi casi predispone di scontare la condanna negli istituti a custodia attenuata. Prevede inoltre che i figli non vengano separati dalle madri fino al compimento del terzo anno di età, per poi essere affidati al parente più prossimo, padre, nonni, o zii. Qualora questo non fosse possibile: nel caso in cui oltre alla madre il bambino non avesse nessun’altro in grado di prendersene cura, verrebbe preso in custodia da case famiglia e assistenti sociali.
Secondo le statistiche riportate dal Ministero della Giustizia, al 30 giugno 2016, gli asili nido funzionanti all’intero degli istituti detentivi femminili sono 18, il picco più alto è stato raggiunto nel 2014, con l’apertura di 21 asili nido.
Le detenute madri con figli in istituto sono 38, solo l’anno scorso 49, mentre nel 2009 si contavano 72 detenute madri con figli in istituto e solo 16 asili nido funzionanti.
Alle 38 detenute madri del 2016 corrispondono 41 bambini, nel 2015 la stima saliva a 50, ma nel 2009 addirittura a 75, superata solo dai dati del 2001 che registravano 83 bambini e nel 2000, 78. Mentre le detenute in gravidanza sono 8.
I reati commessi dalle detenute sono per la gran parte relativi allo spaccio di sostanze stupefacienti, alla collaborazione con associazioni mafiose o furti, per quanto riguarda le immigrate.
Nella Casa Circondariale di Rebibbia, per esempio, le detenute con i figli in istituto vivono in una struttura distaccata e adiacente a quella dove sono recluse le altre donne senza figli, dotata di un giardino per i bambini e una sala giochi. Le celle rimangono sempre aperte durante il giorno, cosicché i bambini siano più liberi di muoversi. Alcuni di loro vanno all’asilo nido comunale, quindi escono la mattina per rientrare in carcere nel primo pomeriggio. Solo la sera, in ragione alla carenza di agenti di polizia penitenziaria, le sbarre della cella vengono chiuse, nonostante una normativa del 2000 stabilisca che le celle che ospitano i bambini debbano rimanere sempre aperte, così da evitare il trauma palese delle sbarre.
La vita di questi bambini inizia proprio dove nessuno vorrebbe finire. Vengono al mondo già marchiati dalla privazione della libertà, muovono i loro primi passi in carcere, vicini alle loro madri, ma da reclusi. Alle iniziative per la creazione di case famiglia, capaci di accogliere donne detenute con figli a carico, purtroppo ad oggi ha fatto seguito niente di più del nulla assoluto.
Carceri, l’urgenza dell’umanizzazione della pena (parte 1)
Carcere, il senso della pena: la testimonianza di un detenuto a Rebibbia (parte 2)
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