Quando i videogiochi hanno smesso di interessarci

Mi sembra doveroso iniziare questo editoriale con una premessa: non intendo sminuire l’importanza della questione che, più d’ogni altra, ha occupato lo spazio mediatico della stampa di settore e delle community online per quasi un anno e mezzo. L’acquisizione di Activision-Blizzard da parte di Microsoft – o almeno la notizia dell’acquisizione – è stata un autentico terremoto per il mondo dei videogiochi, un terremoto del quale anche io scrissi a tempo debito, febbrilmente incuriosito dall’esito che una simile svolta avrebbe potuto avere per il panorama videoludico in generale.
Quello che cercavo, ragionando sulla mossa di Redmond, era una chiave di lettura degli avvenimenti che avrebbero caratterizzato la storia del videogioco negli anni a seguire, convinto com’ero – e come sono tutt’ora – che il medium che tanto ci sforziamo di definire come una nuova forma d’arte sia, forse ancora prima di ciò, il più eloquente testimone del nostro tempo culturale, il simbolo perfetto di una realtà dove la gamification ha esteso il suo dominio in ogni ambito del quotidiano, e che pertanto del quotidiano – di noi, dunque – possa dirci qualcosa.
Non so se sia riuscito in questa operazione, che mi rendo conto essere forse fin troppo ambiziosa. Quello che so, da amante della discussione videoludica, è che da quando abbiamo iniziato a parlare dell’acquisizione di Activision-Blizzard abbiamo anche smesso di parlare di videogiochi. Sarà che l’output di notizie è stato tale da sommergere qualsiasi altro tipo di discorso, sarà che sono davvero in molti a chiedersi se il prossimo capitolo di Call of Duty approderà su Game Pass oppure no, fatto sta che in questa travolgente narrazione sul futuro del gaming l’unico grande assente continua ad essere proprio il medium videoludico.

Abbiamo preso in fretta l’abitudine a disquisire sulle differenze tra Microsoft e Sony, mettendo a confronto i due diversi modelli di business al solo scopo di stabilire quale sia il migliore e mai per discutere di come queste filosofie aziendali contribuiscono a plasmare i videogiochi di oggi, a renderli intrinsecamente diversi gli uni dagli altri. Abbiamo scelto da che parte stare, com’è giusto che sia, ma sempre con il piglio di chi non aspetta altro che salire sul carro dei vincitori in una partita dal risultato sempre meno incerto.
E in tutto ciò il videogioco in quanto oggetto della passione che ci porta a intestarci con orgoglio il titolo di “gamer” è laconicamente uscito di scena, senza che qualcuno si degnasse di chiedere dove stesse andando e perché ci fossimo ritrovati improvvisamente a parlare di Antitrust, delle dichiarazioni di Jim Ryan e dello spettro del monopolio.
Non si può nemmeno sperare di liquidare l’intera faccenda lamentando che, a quanto pare, “sono diventati tutti degli esimi analisti di mercato”, benché l’invettiva alla tuttologia goda sempre di grande popolarità. Da un certo punto di vista è normale che se ne parli; molto meno lo è scordarsi di cosa ci ha portato a prender posto al tavolo della discussione. Quello che verrebbe da chiedersi, insomma, è se davvero ci importa così tanto di come andrà questa acquisizione. Se ha senso continuare a pensare che le sorti dei videogiocatori dipendano dal verdetto di una disputa legale: che siano, in sostanza, le stesse dell’industry.
Il confine tra le due prospettive – contigue ma distinte per definizione – pare infatti assottigliarsi inesorabilmente nella cacofonia di news e aggiornamenti a cui siamo esposti. Perché, dobbiamo dircelo, la stampa di settore ha avuto un ruolo non indifferente. Report di analisti, accordi tra aziende fino a prima taciuti, dichiarazioni degli organi vigilanti e sentenze parziali hanno fatto capolino sulle homepage dei siti d’informazione in modo totalmente frammentario, senza che fosse fornita una visione d’insieme. E in nome di una simile tendenza alla semplificazione concetti quali concorrenza, innovazione, bene del consumatore, etc. sono stati fraintesi e riassorbiti nel dualismo discorsivo della cara e vecchia “console war”, che rimane evidentemente l’unica strategia comunicativa adatta per dare in pasto notizie del genere al proprio pubblico.
Si è così fatta largo l’idea che parlare di queste cose significasse non solo parlare di videogiochi, ma essere oltretutto piuttosto competenti nel farlo. È stata accarezzata l’illusione di aver finalmente decifrato le oscure dinamiche del mercato videoludico come se queste potessero rappresentare la conoscenza del medium tout court, fino all’assurda insinuazione che siano gli enti preposti a non sapere come fare il proprio mestiere visto “quanto poco conoscono i videogiochi”.

L’equivoco sta proprio qui, nel credere che questa sia una cosa che riguarda da vicino i videogiochi, senza cogliere il contesto – decisamente più ampio e sfaccettato – in cui si muovono le multinazionali per cui smaniamo di fare i non richiesti (e non pagati) promoter. Non sto dicendo che la cosa non abbia a che fare con i videogiochi, ma che il trattamento che abbiamo riservato a questi sia quantomeno mercificatorio, strumentale soltanto ad un’insulsa partigianeria che non aggiunge nulla di rilevante al discorso videoludico propriamente detto.
Al netto della responsabilità della stampa, ed invero anche di molti content creators che hanno cavalcato l’onda lunga della notizia per darne un qualche giudizio su basi conoscitive alquanto traballanti, ad un certo punto bisogna infatti chiedersi se la strada che abbiamo imboccato porti davvero da qualche parte o se non sia, invece, l’ennesimo vicolo cieco delle sezioni commenti online. Con tutto che non sarebbe certo la prima volta che il videogioco diventa terreno di scontro per egoismi e maldestri tentativi di portarsi a casa il proverbiale quarto d’ora di notorietà.
Adesso che è arrivato il diniego ufficiale da parte della CMA si ha come l’impressione che non sia cambiato nulla, che siamo ancora punto e a capo. Continueremo a parlarne, a fare supposizioni sugli altri possibili sviluppi, sulle motivazioni alla base di questo e di quel verdetto, senza comprenderle mai veramente a giudicare dallo sbigottimento e dall’imbarazzo generale per le preoccupazioni espresse dalla commissione britannica circa il settore del cloud gaming. Possibile che non ci sia altro di cui parlare? Che sia tutto qui il discorso sui videogiochi?
Forse alla fine questa storia dice davvero qualcosa di noi, e lo fa nel modo più brutale, mettendoci davanti, con il suo immobilismo burocratizzato, ad un silenzio di cui non riusciamo a far tesoro. Un silenzio che potrebbe rivelare, se solo ci sforzassimo di vedere oltre le nostre abitudini di consumatori, quanto trascuriamo il valore culturale del videogioco, che preferiamo decisamente trattare come l’ennesimo prodotto dell’industria dell’intrattenimento e dare quindi per scontato che soltanto in quest’ottica se ne possa parlare. Mentre là fuori c’è un mondo ancora da scoprire.
Ma ci interessa parlare di videogiochi o delle aziende che li producono? La partita è questa; quella tra Microsoft e l’Antitrust viene dopo.