Signalis – Quando horror e pixel art si fondono

Il panorama indie non difetta certo di produzioni capaci – tra le tante derivative – di far propri i canoni di autentici capisaldi del videoludo, dando vita talvolta a esperienze uniche, pregne di significato, definendo anche nuovi orizzonti creativi. Signalis, survival horror in pixel art annunciato dapprima al Tribeca Games del 2021 e poi approfondito con un secondo trailer al Guerrilla Collective di quest’anno, va indubbiamente annoverato tra queste, grazie al lavoro certosino e ispirato del duo di sviluppatori indipendenti rose-engine.
Il laconico risveglio di Elster, la tecnica “Replika” protagonista dell’avventura, è già di per sé una dichiarazione d’intenti piuttosto efficace: nel gelido abbraccio di una stanza anecoica, all’interno di un’astronave in viaggio per chissà dove, il sonno criogenico della giovane androide si interrompe senza apparente motivo, per poi svelare il tragico approdo su di un pianeta alieno, disperso tra silenziosi, imperituri ghiacciai.
Non una parola, solo qualche sparuto appunto qua e là che rivela la natura artificiale dei Replika, fornendo preliminari informazioni sul contesto in cui, poco dopo, prenderà il via un viaggio raccapricciante tra orrori di vario genere. Un incipit d’impatto, che stabilisce fin da subito il tenore dell’esperienza confezionata da Yuri Stern e Barbara Wittmann: quello che non si potrebbe definire altrimenti se non un vero omaggio all’horror vecchia scuola.
Sulle orme dei grandi classici
Tratto predominante dell’impianto ludico di Signalis è un evidente, quanto ben riuscito accostamento alla visione creativa di Shinji Mikami. Escludendo infatti la visuale top-down preferita dal duo tedesco, l’impostazione del gameplay ricalca appieno gli stilemi del survival horror per come è stato canonizzato dai primi Resident Evil: un intreccio di esplorazione, enigmi ambientali e combattimenti contro sinistre e – non meno redivive – creature mosse da un folle istinto omicida.
Nella produzione firmata rose-engine ci troveremo a setacciare stanze e corridoi per reperire ora una chiave d’accesso fondamentale per proseguire, ora un kit medico oppure delle munizioni, il cui ritrovamento ha spesso un effetto salvifico vista la reticenza generale con cui vengono distribuite. L’uso delle risorse non può prescindere dunque da una scrupolosa economia, anche a causa della limitatezza dell’inventario, che è costituito solamente da 6 slot. A questo proposito tornano utili i bauli presenti nelle stanze sicure, dove potremo riporre gli strumenti non indispensabili, oltre a salvare i progressi interagendo con un vetusto monitor dalla fortissima luce rossa – analogo della macchina da scrivere di Resident Evil.

Il combattimento, dal canto suo, non riserva grandissime sorprese, ma possiede una peculiarità che sarebbe ingiusto trascurare. Per prendere la mira è sufficiente indirizzare la traiettoria dell’arma verso un nemico, tuttavia il margine di precisione aumenterà man mano che restiamo in puntamento, cosa che minimizza l’apporto offensivo delle armi nelle situazioni di panico. Sebbene i nemici – creature deformi armate per lo più di mannaia – non siano molti, non mancheranno zone in cui doversela vedere con più energumeni e sono proprio questi i momenti in cui l’idea alla base del combat system si rivela vincente.
Di maggior spessore sono, comunque, gli enigmi ambientali, che nel loro insieme vanno a costruire un percorso di sfida continua, merito anche di un level design articolato, quasi labirintico, che invoglia costantemente ad una perlustrazione certosina degli ambienti claustrofobici di Signalis. Il puzzle design non lascia nulla al caso, né tanto meno cede alla tentazione di optare per soluzioni di comodo. Anzi, sfruttando espedienti come quello dei segnali delle stazioni radio – da decodificare con un apposito apparecchio – funziona meravigliosamente da collante sul piano ludico-narrativo, proponendo sfide di ingegno che si amalgamano efficacemente col tessuto diegetico.
Strisciante inquietudine
L’altro grande contributo che ritroviamo in Signalis è una spiccata inclinazione per l’horror psicologico di cui il mai troppo elogiato Silent Hill è stato indubbio precursore. Qui, infatti, la componente orrorifica non è determinata dalla presenza di jumpscare (praticamente assenti), quanto più da un’atmosfera intrisa di tensione, di un palpabile senso di alienazione capace di culminare, nei suoi momenti più viscerali, in veri e propri deliri al limite del paranormale. Complici anche effetti visivi quali i glitch fittizi e un sound design gutturale, perverso.
Visti i presupposti, si potrebbe dire che l’opera di Stern e Wittmann non sia più che una, seppur bellissima, operazione nostalgia. Ma la sua narrativa criptica, da vero thriller fantascientifico, e il ricorso a tratti esemplare a svariati tòpoi dell’horror classico svelano in realtà un prodotto dal carattere più che riconoscibile, che si presta sì a un sentito tributo dei titoli sopracitati, ma dimostrando di avere una personalità piuttosto forte. E il merito va anche a quello che, di fatto, Signalis aggiunge al canovaccio di partenza.

C’è una ricerca dell’ignoto e del grottesco che trasuda inquietudine: una ricerca del mistero in cui si sovrappongono – in maniera destabilizzante – stralci di realtà confuse, sottilmente occulte, alterate da uno sfasamento con il piano onirico a cui sarebbe impossibile non riconoscere, a questo punto, un rimando a Le Montagne della Follia di H.P. Lovecraft. Tanto più quando l’intreccio imbastito da rose-engine arriva a degli exploit di autentico orrore cosmico, con creature orripilanti e scorci che metteranno a dura prova anche le menti più preparate a questo genere di aberrazioni.
Il fascino del retrò
Forse però l’aspetto più riuscito di Signalis è il suo stile grafico vintage, che – anche grazie a occasionali passaggi alla prima persona, per mezzo della quale bisognerà esaminare l’ambiente in cerca di dettagli utili – riesce ad evocare sensazioni da PS1. Ma essendo l’estetica anzitutto espressione di un limite (specialmente tecnologico – o meglio, tecnico), il suo recupero è spesso un’operazione difficile: si rischia di ostentarla, privandola così della sua originaria magia. E questo quando non si sconfina nel mero citazionismo.
Signalis, tuttavia, evita abilmente questo capitombolo. La sua pixel art, che consente tra l’altro di mascherare con una certa eleganza gli ovvi limiti dello sviluppo indipendente, confluisce in maniera armoniosa nel linguaggio dell’avventura – interessando anche lo stesso layout dei menù – e ne proietta una sfida immaginifica. Schermi CRT, pellicole autosviluppanti, floppy disk e interfacce anacronistiche: sono tutti elementi che trionfano nel restituire tanto le speranze quanto i timori che, storicamente, si sono levati intorno allo sviluppo tecnologico e alla sua irreversibile intrusione nella cultura degli anni ‘80.

Non stupisce, infatti, che per certi versi questo astruso retaggio futuristico richiami l’immaginario di Blade Runner, oppure di Ghost in the Shell. Ma c’è di più: passando frattanto dai totalitarismi di orwelliana memoria, con poster di propaganda alle pareti e lo sguardo indiscreto di onnipresenti telecamere di sicurezza, questo stile retrò così finemente stilizzato attinge dal Brutalismo per modellare uno scenario denso di paranoia tecnofobica, salvo poi trascenderne la topologia scivolando di prepotenza nei più oscuri recessi del paradossale e dell’assurdo.
In questo risplende oltretutto il character design dei Replika, ispirato alle opere del mangaka Tsutomu Nihei soprattutto per quanto concerne la scelta dei colori. E non meno importante è la regia delle brevi – ma fondamentali – cutscene con cui progredisce la trama: di stampo sperimentale (gli stessi autori citano Kubrick, Lynch e Anno quali fonti d’ispirazione), le sequenze cinematiche stravolgono tanto il giocatore quanto la storia stessa, squarciando la tensione di cui è ammantata e disvelando prospettive sempre più intrise di follia.
Dedalo di occulte e raccapriccianti suggestioni, l’opera di Yuri Stern e Barbara Wittmann è in definitiva ben più di una semplice “lettera d’amore” ai survival horror che furono. È una sintesi raffinata del mistero in tutte le sue forme, un viaggio alla riscoperta di paure forse mai sopite, tra l’iconografia di ben cementate narrazioni distopiche e una disturbante rivisitazione del classicismo videoludico in pixel art.