Da Giotto al MoMA: un elogio alla semplicità dei videogiochi

Con un brillante excursus sulle opere del pittore fiorentino, nel suo video volto a “spiegare Giotto coi videogames”, Roberto Mercadini – attore di teatro, scrittore e youtuber – pone in essere un parallelismo tutt’altro che estraneo al compendio dell’evoluzione del media, la quale ha reso di fatto il videogioco ciò che è oggigiorno.
Fulcro delle dissertazioni esposte è il voler rintracciare quel senso di realismo che esibivano le opere di Giotto quando messe a confronto con la ancora più stilizzata pittura di Cimabue (oltre a quella bizantina), prima ampiamente diffusa. Un realismo che per i posteri sarà difficile tanto individuare quanto apprezzare vista la naturale limitatezza delle stesse, ma che in qualche modo – nell’analogia incalzata da Mercadini – rimanda al successo che i primissimi Tecmo World Cup ‘90 e Football Champ ebbero sui loro antenati nell’ambito del cabinato.
È nella contrapposizione tra i due modelli – quello contemporaneo di allora e quello ad esso immediatamente precedente – che emerge una rappresentazione quanto più verosimile della realtà secondo i canoni di anatomia, proporzione e postura in favore dello stile di Giotto così come per i videogiochi sportivi sullo schermo ricurvo.
Ma perché allora “la pittura di Giotto [non] ha valore unicamente come documento storico?”, si chiede lo youtuber, sottolineando, a ragion veduta, come al giorno d’oggi non serva poi molto per produrre opere di un realismo anche blandamente superiore nel campo delle discipline artistiche. Perché, Giotto, è ancora splendido oggetto di culto, di ammirazione? Un dilemma, questo, che nel suo stesso tentativo di indagine – chiamando in causa la necessità di andare oltre il riconoscimento della mera innovazione tecnica – esplora trasversalmente anche il fenomeno del retrogaming: cosa c’è di affascinante nei videogiochi di una volta?
La semplicità come paradigma stilistico
Non serve certo la macchina del tempo per capacitarsi di quanto semplice fosse il design dei primi videogiochi mainstream. Basti pensare a Tetris e alla compostezza minimale delle sue mattonelle variopinte; al celebre Pac-Man che ingurgitava pallini bianchi schivando simulacri di fantasmini dispettosi; oppure all’egemonico Space Invaders – artefice della colonizzazione delle sale da gioco a tutte le latitudini. E poi c’è quell’intramontabile Super Mario Bros., chiosa dell’8 bit, apogeo del platform e capolavoro atemporale della terza generazione di console – e, indubitabilmente, il sempiterno cavallo di battaglia della Grande N.

Se ancora oggi si considerano memorabili questi titoli al punto da riconoscervi la virtuosa pratica del retrogaming – che annovera sempre più appassionati, i riflettori sono da puntare proprio sul ruolo di quella semplicità estetica e di game design che ha plasmato l’industria nelle sue fondamenta, permettendone la crescita che l’ha portata ai lidi delle produzioni odierne, impostata una rotta che – pur virando sull’iperrealismo degli ultimi anni – è sempre rimasta un punto di riferimento per ogni tipo di sviluppo.
Come esemplificato dalla bidimensionalità cromatica di Limbo che concorre alla realizzazione di un mondo retto su pochi, pochissimi assets di gioco, ma ugualmente carismatico, la semplicità diventa prerogativa del paesaggio e dunque parte integrante dell’esperienza ludica. La sua contemplazione sinestetica, la sua rifrazione nel contesto smussato da pochi input e partecipato dall’interazione secondo meccaniche riconoscibili sono il risultato di una conflazione stilistica debitrice dei primi arcade che è importante non confondere con una pedissequa riproposizione dei medesimi schemi.
Dalla bellezza della posa chiara e dal minimalismo doveroso e riverente derivano le formule di una pulizia visiva appagante, stimolante, ben lungi dalla complessità del fotorealismo che prenderà piede qualche anno più tardi con l’avvicinarsi delle esperienze interattive ai tropi del grande schermo.
Il valore dell’essenziale
“La forma artistica […] è il risultato ottimale del problema (progetto) ben impostato.”
– Le Corbusier
Stretta nella morsa di una limitatezza congenita ai primi hardware, la creatività deve adeguarsi al profilo di un’architettura informatica scarna dalla quale non le è certo permesso esprimersi in tutta la sua totalizzante maestosità.
Ma nell’ingegno dell’ottimizzazione – nello scacco squisitamente computazionale che dediti sviluppatori hanno saputo muovere alla precarietà dei tool a loro disposizione – c’è tutta la fantasia della gamma cromatica, tutta la disciplina della linearità: un’eleganza che va sciorinando ora l’incastro magnetico della mattonelle l’una nell’incavo dell’altra, ora il balzo deciso sulla testa del fungo (i goomba) accompagnato dal consueto jingle – con l’indubbio trionfo dell’interazione che viene così messa a fuoco, glorificata.

Non a caso Mercadini cita la TED Talk di Paola Antonelli, dove l’architetta italiana – considerata nel novero delle cento persone più influenti nel mondo dell’arte – illustra, peraltro con grande senso dell’umorismo, le motivazioni dietro alla scelta di annettere al Museum of Modern Art (MoMA) alcuni videogames iconici e rappresentativi della storia del medium, dove non può che fare la sua comparsa anche l’idraulico coi baffoni.
Proprio in questa sede viene rilanciata l’identità del videogioco con una definizione acuta e inedita: quella del design interattivo. A ben vedere, infatti, tale espressione inquadra perfettamente il tipo di approccio concettuale che implica il videogioco alla luce della sua originaria semplicità. Osserva – muoviti – interagisci è la triade di una postura mentale incamerata dai primissimi arcade e suggellata nell’apoteosi del pixel con i capolavori a cui oggi dedichiamo la celebrazione del retrò e che rappresenta sempre e comunque l’anima di un qualsiasi videogame moderno.
Intuitivi e scevri da fuorvianti distrazioni di contorno – cosa che invece oggi troviamo abbondantemente nei titoli open world cosiddetti quantitativi – i primi videogiochi esprimevano un’idea diretta e indubbiamente efficace di coinvolgimento in grado di fare presa tanto sul giocatore casual quanto su quello più hardcore, entrambi ammaliati dalla purezza del setting semplice e accattivante, frutto di una serie di compromessi tecnici per cui il design interattivo portava al successo di una bellezza escogitata.
Quando la semplicità diventa gameplay
Mascotte di Sega e nemesi eterna del già citato idraulico italiano, Sonic the Hedgehog ha contribuito a tradurre quella stessa semplicità stilistica in un principio di gameplay: nato proprio come emblema della potenza di calcolo del Sega Mega Drive, il porcospino blu scorrazzava a tutta velocità sui fondali coloratissimi con eccentrico dinamismo, facendo di questo suo tratto distintivo l’assunto di un mito storico.

L’idea di SEGA fu quella di contrastare il successo di Super Mario puntando a conquistare il mercato americano con un’operazione che avrebbe al contempo ridefinito il volto dell’azienda di Tokyo, sostituendo al precedente e poco popolare Alex Kidd una nuova icona. Per farlo, il team capitanato da Naka e Ōshima (a cui poi sopraggiunse Hirokazu Yasuhara nella figura di lead designer) pensò inizialmente ad un personaggio con le fattezze di un agile coniglietto capace di scagliare oggetti in qualunque direzione, soprattutto sui nemici; tuttavia, i limiti dell’hardware – benché si trattasse appunto di una console tecnicamente superiore a quelle della concorrenza – impedirono la realizzazione del progetto a causa dell’eccessivo impatto sul frame rate.
Da lì l’intuizione del porcospino che con un solo, fluido movimento – e dunque alla pressione di un singolo tasto – sarebbe stato in grado di muoversi e neutralizzare i nemici al tempo stesso, unendo con la rotolata due meccaniche di gioco nel singolo espediente della velocità. Sonic diventa quindi il simbolo di un’epoca, ormai già del 16 bit, con il suo carisma inconfondibile: semplice quanto l’idea stessa di puntare tutto sulla velocità, ma riuscito in ogni suo aspetto di design, dalla scelta dei colori alla forma e alle animazioni dello sprite – oltre a quello che potremmo oggigiorno definire il mood del videogioco, scanzonato eppure epico.
L’eredità videoludica
Se ci si fermasse a prender nota delle sole specifiche tecniche che attestarono il vantaggio di Sonic sul rivale Super Mario, non si riuscirebbe oggi a comprendere la bellezza di uno, né dell’altro. Anzi, a dirla ditta, a guardare le pubblicità degli anni ‘90 in cui questi titoli venivano sponsorizzati ci si rende conto, con un sorriso di stupore sul volto, di come il portentoso salto in avanti sul fronte delle prestazioni non sia altro che un minuscolo tratteggio nella grandiosa evoluzione del media e del concetto di game design.
Allo stesso modo, infatti, nella contemplazione del Bacio di Giuda o della Adorazione dei Magi, appare evidente il netto contrasto tra il potenziale delle opere di Giotto rispetto a quanto potuto osservare nelle correnti artistiche a lui antecedenti, ma si tratta pur sempre di un contrasto effimero che non esprime – se non in minima misura – la cifra stilistica che ha reso tali certi capolavori.
Raffrontando i due modelli e portando dunque la disanima su un piano prettamente tecnico, si rischia di non mettere a fuoco quella forza cangiante del bello – nella sua accezione platonica – che emerge riuscendo a definire standard di qualità oggettiva nonostante la repressione di pesantissimi limiti hardware.
L’arte e la sua storia fatta racconti, compendi dei maestri e influenze culturali ci insegna come scrutare nella mitopoiesi che avvolge il retrogaming. È lì, pronta a spiegarci quanto il valore di un artista non si misuri solamente sul metro dell’innovazione e della tecnica, altrimenti, è bene ricordarlo, il peso storico squalificherebbe qualsiasi opera; bensì è nel trionfo della bellezza creativa, stilistica – e, in questo caso, anche di gameplay – che si può ritrovare l’impronta di un talento genuino, autentico, quello che poggia le basi sulla sola forza delle proprie passioni perseguendo l’obiettivo di entusiasmare, anche con poco, anche con soli 128 Kb di RAM a disposizione.
