Narita Boy e la religione del Digital Kingdom

Dopo la pubblicazione dell’ottimo Blasphemous, Team17 ha fatto nuovamente da publisher per un altrettanto ottimo metroidvania: Narita Boy, sviluppato dallo Studio Koba e rilasciato su PC e su tutte le console di ottava e nona generazione (è disponibile anche su Xbox Game Pass fin dal day-one).
Ancora una volta troviamo un videogioco dove il concept artistico è la prima caratteristica che salta all’occhio. Se Blasphemous ha mostrato un fanatismo religioso tanto oscuro e grottesco quanto affascinante, Narita Boy ci riporta ai primi anni ‘80 e ai videogiochi dell’epoca, ma con una chiave di lettura moderna.
Il culto del Digital Kingdom
Ci troviamo in America, nei primi anni ’80, quando un uomo a lavoro su un computer dell’epoca viene incredibilmente attaccato da una misteriosa entità di colore rosso proveniente dalla stessa macchina, la quale gli causa una perdita di memoria.
La scena si sposta in un’altra abitazione, dove una donna sta rimproverando il proprio figlio per il troppo tempo che dedica al suo nuovo videogioco: Narita Boy. Ma quella notte il ragazzo viene svegliato da qualcosa di incredibile che lo trascina all’interno del PC proprio sotto forma dell’eroe del suo videogioco.
Nel Digital Kingdom (“Regno Digitale”. Narita Boy non ha la locazione in italiano) Narita Boy entra in contatto con l’entità denominata Motherboard, la quale rivela che egli è l’eroe prescelto per salvare il regno da HIM, un’entità maligna proveniente dalla Luce Rossa del Trichroma che ha fatto perdere la memoria al Creatore, per poi invadere il resto del Digital Kingdom con i suoi Stallions.
L’obiettivo di Narita Boy è quello di viaggiare per il Digital Kingdom e trovare i tredici Totem delle Memorie, affinché il Creatore possa ricordare il suo percorso di vita e cancellare la minaccia di HIM.

Fa sorridere il fatto che proprio in prossimità della Pasqua sia arrivato un videogioco dal concept artistico che porta a riflettere sulla religione.
Ad esempio, il fatto che il Digital Kingdom veda il Creatore come un dio. Dopotutto, chi potrebbe essere un dio di un mondo digitale se non il suo stesso sviluppatore? Così come il Trichroma, ovvero il tricromatico, è l’essenza della vita per un mondo fatto di pixel.
Se è vero, poi, che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, lo stesso vale per il Creatore nei confronti del Digital Kingdom, come scoprirà Narita Boy riattivando i Totem delle Memorie. Le preghiere, la meditazione, i simboli, le creature, gli ambienti, i colori del Trichroma, e persino il nome “Narita Boy” e l’identità del protagonista: tutti elementi che in qualche modo hanno fatto parte della vita del Creatore.
Al di là della metafora religiosa, si potrebbe vedere in tutto ciò anche la raffigurazione di uno sviluppatore che mette davvero la propria anima nella creazione di un videogioco.

Narita Boy segue la strada intrapresa da altri videogiochi “indie” negli ultimi anni, presentando una struttura semplice che non rinuncia a una morale interessante: cos’è un dio? Forse è semplicemente un’entità mortale superiore che non si riesce a comprendere, o forse siamo noi a considerare sacro qualcosa che in realtà è semplicemente l’essenza della vita terrena.
Wield the Techno-Sword
Ma come si gioca Narita Boy? Parliamo di un metroidvania non troppo complesso né particolarmente longevo, con una difficoltà ben bilanciata anche nelle fasi di combattimento e nel respawn dopo la morte. Il tipico bilanciamento necessario con una narrazione del genere.
Il mondo di gioco è un 2D che si estende per lo più in orizzontale e pochissimo in verticale, con Narita Boy che spesso si ritrova a dover andare avanti e indietro più volte per ottenere le chiavi in grado di sbloccare il suo percorso. Tutto ciò non risulta particolarmente ripetitivo, grazie alla narrazione che accompagna la ricerca delle chiavi, composta da dialoghi con gli NPC, e a nemici sempre nuovi da sconfiggere. Non mancano sessioni di movimento diverse dal solito, quali cavalcate, surf su Floppy Disk, o anche semplici viaggi narrativi.
In combattimento Narita Boy si batte principalmente impugnando la Techno-Sword, una spada con i colori del Trichroma che può essere usata anche come fucile (o come raggio, sfruttando al massimo la carica). Durante il suo viaggio Narita Boy sbloccherà diversi power-up per la Techno-Sword, i quali permettono anche nuove possibilità per muoversi nel mondo di gioco, come l’uso dell’uppercut per saltare più in alto o il colpo in caduta per rompere alcune superfici. Narita Boy riceverà anche il supporto dei Dudes che proteggono le Tre Case del Trichroma, i quali permettono un power up temporaneo per sconfiggere in fretta determinati nemici, oppure un attacco ad area potentissimo.
Il gioco, per ovvi motivi, parte un po’ a rilento con le fasi action, ma prosegue offrendo combattimenti contro diverse tipologie di nemici, tra i quali anche numerosi boss e mid-boss, e con l’aggiunta di alcune (poche) fasi di combattimento “originali”.

Il comparto tecnico e artistico di Narita Boy è composto da una ricercata grafica dei videogiochi anni ‘80 (c’è persino la smussatura ai bordi dello schermo per simulare il monitor a tubo catodico) abbellita dai colori e dagli effetti grafici dei videogiochi 2D moderni. Troviamo anche lo stile delle chiavi, dei power up, e i nomi dei nemici raffigurati in dati presenti in Floppy Disk, e non può mancare la main theme techno che si abbina benissimo a un videogioco di quell’epoca.
Il gameplay e la componente artistica non sono esenti da qualche piccolo difetto, ovvero gli indicatori delle piattaforme sulle quali è possibile saltare o, soprattutto, appigliarsi per scalare i muri che a volte si mimetizzano abbastanza con l’ambiente, non risultando visibili a primo impatto in alcuni casi, e il comando di salto eccessivamente fluido nelle sessioni platform. Non che Narita Boy sia un gioco punitivo, ma è evidente come controllare il protagonista in salto con la levetta analogica non risulta proprio comodissimo.
Inoltre, cercando di esprimere quest’ultimo parere evitando anticipazioni sulla trama, avrei voluto che la metafora religiosa venisse abbracciata fino in fondo dalla storia, senza perdersi un po’ con l’obiettivo dell’antagonista, che è invece la parte dell’intreccio chiaramente fantasy.
