Bisogna tornare ai videogiochi da dieci ore?
Gioco ai videogames perché li voglio finire. Voglio scoprire la storia e come si sviluppa la narrazione, ma molti dei giochi non li finisco. Non è assurdo che parliamo di narrativa, ma alla fine facciamo giochi che solo una parte dell’audience finisce? Dobbiamo ampliare le offerte -magari su un modello di abbonamento- così potremmo realizzare giochi che raccontano una storia di quattro ore sfruttando un budget adeguato. Siamo nell’era della distribuzione digitale, quindi è possibile farlo. Non dovremmo fossilizzarci su questo problema del budget e creare più e più contenuti, rovinando lo spirito di questo tipo di giochi.“
Così parlò Amy Hennig al Gamelab di Barcellona del 2018.
Nell’anno in cui iniziava l’esplosione di Fortnite, l’autrice di Uncharted faceva già notare il problema di videogiochi single player sempre più costosi per le produzioni, le quali iniziavano a preferire il meno dispendioso e più redditizio investimento sui videogiochi multiplayer.
Sei anni dopo, i giocatori hanno compreso e accettato da tempo la visione del problema sui single player diluiti, soprattutto quando si tratta di open world che appaiono forzati.
Tuttavia permane, anzi si ingigantisce il problema dei costi elevati e dei tempi di sviluppo dilungati, oltre alla tendenza, anch’essa denunciata da Amy Hennig a suo tempo, di non voler pagare il prezzo pieno per videogiochi non troppo longevi.
Eppure, tra videogiochi immensi, live service infiniti e piattaforme dall’offerta sempre allettante, si presenta la mancanza di tempo da dedicare ai videogiochi, unita al nuovo fenomeno del binge gaming (iniziare un videogioco senza portarlo a termine) nato soprattutto per via delle piattaforme gaming con abbonamento.
Nonostante alcune differenze, il panorama videoludico odierno non sembrerebbe discostarsi molto dalla visione espressa da Amy Hennig nel 2018.
Tornare ai videogiochi “da 10 ore”: si può?
L’incremento dei costi e dei tempi di sviluppo che ha colpito interamente il settore videoludico, è dovuto anche all’evoluzione tecnologica che ha scatenato non solo negli sviluppatori, ma soprattutto nell’utenza il desiderio di videogiochi sempre più performanti e con sempre maggiori possibilità offerte.
Difficile persino convincere il giocatore medio, per esempio, della bontà di Prince of Persia: The Lost Crown, ovvero convincerlo che la scelta di una grafica 2.5D non dovrebbe penalizzare l’opera in questione.
Potrebbe essere una fortuna che in questo oceano di innovazione videoludica, le opere più piccole abbiano subito una sorta di gigantismo abissale. Basti pensare all’espansione Cyberpunk 2077: Phantom Liberty, dalla durata di circa venti ore, nonché presente a The Game Awards 2023 tra i candidati per il premio alla miglior narrativa.
Questo “gigantismo abissale”, fortunatamente, non dovrebbe aver toccato più di tanto l’utenza, dovendo essa scontrarsi con i suddetti problemi dovuti al tempo a disposizione e, in relazione ad esso, all’offerta eccessivamente ampia.
Un titolo come Hi-Fi Rush, per qualità, longevità e rigiocabilità, non da affatto l’idea di essere una produzione next gen a basso budget, come invece starebbero a dimostrare il prezzo e il lancio tramite shadow drop (il gioco è stato messo in vendita subito dopo l’annuncio, senza alcun tipo di preavviso).
Produzioni del genere potrebbero anche essere l’ideale per sostenere videogiochi di alta qualità su piattaforme con abbonamento, come il Game Pass, disponibili fin dal giorno di lancio sul mercato, senza dover ricorrere ad altre forme di escamotage.
Un’altra soluzione, seppur poco apprezzata dai videogiocatori che siano minimo over 25, potrebbe essere l’affidarsi al videogioco digitale per ridurre i costi di produzione. Una pratica da tempo all’ordine del giorno per il PC gaming, ma adoperata di recente anche per i pluripremiati Baldur’s Gate 3 e Alan Wake 2.
Soprattutto l’ultima opera di Remedy Entertainment, con una longevità che va dalle quindici alle venti ore e venduta a un prezzo pieno di circa sessanta euro, da l’impressione di un’offerta risalente a due generazioni videoludiche fa, pur trattandosi di un videogioco assolutamente moderno.
Roguelike e Roguelite possono tornare di moda?
Rimanendo in tema di longevità: tre anni fa sembrava che Roguelike e Roguelite stessero diventando main stream come genere videoludico, tra modalità di questo tipo inserite in ogni dove, il videogioco The Binding of Isaac popolarissimo nelle live di Twitch, fino a raggiungere l’apice probabilmente con Returnal, il primo Roguelite Tripla A, ma anche con la rivisitazione del genere proposta da Deathloop.
I lati positivi di questi generi sono facilmente riassumibili: videogiochi poco longevi, ma altamente rigiocabili per la sfida che propongono, la casualità, e il metodo narrativo.
Potrebbero non essere apprezzati da tutti per via della loro difficoltà, in genere elevata, ma oggi come allora potrebbero tornare utili nel panorama videoludico, in aiuto di quanto denunciato nell’introduzione.
Sony stessa non sembrerebbe sponsorizzare molto Returnal, nonostante abbia acquisito Housemarque, software house autrice dell’opera in questione, poco dopo il lancio di questa esclusiva sul mercato.
La stessa Sony ha però rilasciato il DLC gratuito Valhalla per God of War Ragnarok; una modalità Roguelike, con difficoltà selezionabile, che conclude la storia di Kratos. Un DLC che potrebbe persino essere d’esempio per realizzare un videogioco completo di questo genere.
Appena un mese dopo Valhalla, è arrivata anche la modalità Roguelike “Senza Ritorno” aggiunta in The Last of Us Parte II Remastered.
Che sia arrivato il momento per Sony di produrre un “nuovo Returnal”?
Poi è arrivato Elden Ring…
Difficoltà elevata, narrazione insolita, spingere il giocatore a migliorare… Nonostante le differenze, è facile trovare similitudini tra i Roguelike e quei Souls-like che hanno fortemente influenzato gli anni 2010.
Similitudini anche nel saper cogliere un’esigenza tornando un po’ al passato. Tornano alla mente Prince of Persia (1989) e Prince of Persia 2: The Shadow and the Flame, da completare entro un’ora, ed era forse di qualcosa di simile che avevano bisogno i videogiochi, dopo un periodo di opere sempre più longeve e di open world forzati.
Questo è quanto si è potuto ipotizzare fino al 25 febbraio 2022, giorno in cui è approdato negli store Elden Ring.
Durante il periodo dell’uscita definitiva dalla Pandemia di COVID-19, quando le persone avevano ormai ripreso una vita normale, FromSoftware pubblica il “Souls” open world e riesce a intrattenere i giocatori per centinaia di ore.
Da lì in poi, Roguelike e Roguelite non sono di certo scomparsi, anzi hanno anche trovato una nuova massima popolarità con Vampire Survivors, ma sono “passati di moda”, con tanto di studi minori tornati nuovamente a tentar di realizzare un Souls-like di livello, nei limiti del possibile (certamente non un videogioco open world), tra Thymesia, Steel Rising, Remnant 2, Lords of the Fallen, e Lies of P.
Forse non era questione di cogliere un’esigenza, quanto di sperimentare in un anno ancora fortemente limitato dal COVID e dalle sue conseguenze?
Il successo di Elden Ring e Baldur’s Gate 3 sta a dimostrare che i giocatori vogliono ancora l’opera maestosa; il problema si pone quando sono in tanti a voler, giustamente, realizzare tale opera.
In questi casi, i giocatori si ritrovano generalmente a dover fare delle scelte per i suddetti motivi, rischiando di assestare un duro colpo agli altri tentativi di “opera maestosa”.
Il lancio di Elden Ring ha oscurato Horizon Forbidden West, sequel di quel Horizon Zero Dawn risultato di recente come l’esclusiva Sony più venduta in assoluto.
Se persino il titolo di Guerrilla Games ha avuto una tale difficoltà arrivando sul mercato appena una settimana prima di Elden Ring, si può immaginare la situazione affrontata da un titolo minore come Elex II pubblicato nello stesso periodo.
Un po’ meglio è andata a Dying Light 2, rilasciato quasi un mese prima di Elden Ring, ma il problema per i giocatori è dover giostrare fra quattro titoli che impegnano per tantissime ore. È inevitabile che più di qualche produzione finisca per farsi del male.