Uno studio in giallo – Undertale: Flowey, il fiorellino

Personaggi particolari, spesso controversi, che, a volte – non sempre – viaggiano nell’ombra dei videogame, sfuggenti, spesso fastidiosi. Ci mettono alla prova, noi e i nostri buoni sentimenti, ci confondono e ci affascinano più di quanto vogliamo ammettere. Cattivi, ma non solo, non sempre.
In questa nuova rubrica, analizzeremo insieme tutti quei personaggi dei videogame che, loro malgrado, restano impressi nel nostro cervello, indagando le motivazioni reali che ci spingono alla curiosità, a volerne sapere di più, a volte, addirittura a voler loro bene.
Howdy, I’m Flowey! Flowey the Flower! … E ti voglio morto.
“Finalmente lo hai capito. In questo mondo la regola è: uccidi o verrai ucciso.”

“Kill or be killed” è praticamente un mantra, al limite dell’ossessione, che Flowey ci ripete lungo tutto il percorso di Undertale. Fin dal primo istante, prima ancora di comprendere il mondo nel quale ci troviamo, il fiorellino giallo ci risulta stranamente fuori posto. Riuscire a imprimere una sensazione di estraneità così forte a un personaggio prima ancora di conoscere il mondo di gioco è solo una delle tantissime perle regalateci da Toby Fox.
La sensazione si acuisce quando iniziamo a esplorare le Rovine, incontrando Toriel e i primi mostri. Quel fiore non è come loro. E sicuramente non è come noi. Non abbastanza mostro, insomma, probabilmente non umano. Un essere sospeso, incomprensibile, certamente crudele, ma che in qualche strana maniera sembra nutrire costantemente un curioso interesse verso di noi. Interesse che, quasi con disagio e sospetto, viene a mano a mano ricambiato.
Personalmente, non ho mai provato vera repulsione per Flowey. Non l’ho mai odiato, nemmeno quando non sapevo nulla di lui e ha provato a uccidermi in ogni modo – spesso riuscendoci. Mi ha suscitato sentimenti contrastanti, questo è vero, eppure c’è qualcosa in lui che, fin dall’inizio, mi ha fatto comprendere che il suo ruolo di antagonista non era casuale, non era dettato da un’immagine in 2D, ma nascondeva ben altro. Una storia, a posteriori, tragica e devastante, che permea il mood dell’intero gioco e si muove sotto l’apparente comicità e leggerezza delle altre storie che si intrecciano, come le radici di una pianta infetta. O velenosa.
Flowey: simbolo umano, oltre l’umano
“There are a lot of Floweys out there” ci viene detto alla fine della Pacifist Run, prima di liberare i mostri dalla prigionia e tornare nel Mondo di sopra con loro. Ed è interessante notare come i mostri non considerino Flowey abbastanza mostro, ma anzi, più simile – almeno sotto certi aspetti – agli esseri umani.

Ha senso se pensiamo che il fiorellino ci accoglie e ci fa da guida nei primi momenti di gioco proprio con il suo mantra kill or be killed, portandoci a dubitare che il “mercy” visto nel trailer possa avere senso. L’ho sentito subito, almeno apparentemente, vicino alla vita vera: homo homini lupus, dicevano i latini, e mai come in questo momento storico, guardandoci intorno, non riusciamo a non dar loro ragione. E ho dubitato così tanto del gioco da uccidere Toriel, salvo pentirmene immediatamente e restartare.
Ma Flowey lo sa. Lo sa che hai dubitato, o meglio che ti sei fidato di lui – e pensa di poterti spingere a disinteressarti anche dei personaggi più dolci, premurosi e materni. E lo sottolinea nella nuova run, lasciandoti intendere che il suo potere va ben oltre il mondo in cui si trova.
Ed è così. Anzi, il suo scopo è proprio prendere possesso del file di gioco e, almeno apparentemente, cancellare la tua ingombrante presenza come personaggio giocante. Perché Undertale non è un multiplayer: può esserci un solo salvataggio per volta. E Flowey vuole che il suo sia l’unico. Vuole giocare con te, per sempre, ma con le sue regole.
In questo mondo a sua completa disposizione, Flowey sceglie te come parte integrante del suo percorso di gioco: tu sei l’altro unico personaggio “filled with determination” e, per estensione, l’unico che sa e riesce a comprenderlo e condividere con lui quell’enorme parco – giochi.
Ed è così che Toby Fox risolve il cortocircuito emotivo che ci portiamo dietro fin dall’inizio: com’è possibile provare compassione e perfino empatia per un fiorellino che ci vuole esplicitamente morti fin dall’inizio?

Flowey, tecnicamente, non ha un’anima. Si è risvegliato quando Alphys, in seguito a un esperimento, ha introdotto la determinazione in un fiore giallo del giardino del re. A insaputa di tutti, lì sopra c’erano ancora le ceneri del defunto Asriel.
Cosa succede quando la determinazione riempie qualcosa che non ha un’anima? Be’, nasce “un” Flowey. Qualcuno di vivo, con poteri inimmaginabili, con volere di vivere, ma incapace di provare emozioni o sentimenti verso qualcun altro (non dimentichiamoci che alla fine della Genocide siamo talmente folli e crudeli, che siamo in grado perfino di spaventarlo).
Però, sempre durante la Pacifist, nel True Lab, veniamo a conoscenza anche di un dettaglio fondamentale per la comprensione totale del simbolo che Flowey può rappresentare nel “nostro” mondo: il piano originale per liberare i mostri dall’Underground era abbastanza diverso da quello di Asgore. Non solo: era stata un’idea del primo umano caduto (che da qui in poi chiameremo Chara, chi sa, intenda).
Procediamo con ordine.
Asriel e Chara, la storia: perché sono fondamentali per Flowey?
Era stata di Chara, infatti, l’idea di essere avvelenato, mangiando un ranuncolo – fiore particolarmente tossico per gli umani, in quanto contenente anemonina, principio attivo che porta alla sedazione profonda e all’arresto cardiaco. Asriel, alla fine della Pacifist, ci fa comprendere che Chara non sia “caduto” dal Monte Ebott, ma sia stato un vero tentativo di suicidio per allontanarsi dal mondo umano, da lui odiato e vessato.
Chara, infatti, è un personaggio molto controverso: il suo scopo era far assorbire la propria anima da Asriel, che sarebbe a quel punto divenuto abbastanza forte da rompere la barriera e salire in superficie con gli altri mostri per avere la loro meritata rivincita sugli esseri umani. Ma Asriel era un mostro gentile, proprio come sua madre: si fidò e si affidò all’idea di Chara solo per l’affetto che nutriva nei confronti di quel fratello adottivo spesso incomprensibile – salvo pentirsene troppo tardi.
Una volta morto, l’anima di Chara venne assorbita da Asriel.
A questo punto, è importante notare che, in pratica, il corpo di Asriel ha due anime: la sua e quella dell’umano che, avendo in sé la determinazione, ne prende il controllo e riporta il suo corpo in superficie.
Quando gli umani videro Asriel con in braccio il corpo di Chara, lo attaccarono senza pietà. Asriel ci dice che Chara non aspettava altro: avrebbe voluto reagire e, con furia omicida, uccidere tutti gli umani presenti. Ma il dolce mostro riuscì a ribellarsi, incassando i colpi senza reagire e, moribondo, si dissolse in polvere nel giardino di Asgore.
Proprio in mezzo a quei bellissimi fiori gialli che Alphys userà come recipiente per la determinazione durante i suoi esperimenti e che daranno vita – anzi, “the will of live” – a Flowey.
Il rapporto tra Chara e Asriel è squisitamente raccontato non solo di prima mano dallo stesso Asriel alla fine della Pacifist, ma anche dalle VHS nel True Lab.
Chara, oltre ad essere, come detto, un personaggio in game controverso e complesso, è anche un umano conflittuale. Sembra essere portato alla distruzione e all’odio, sia di sé che degli altri, umani e mostri: è infatti evidente come la sua attenzione per i mostri e per la loro causa, sia in realtà solo un piano, un mezzo per raggiungere la superficie e l’obiettivo di eradicare gli esseri umani.

Senza anima, ma con determinazione
Incolpiamo Flowey di essere crudele. Ma Flowey non ha un’anima. Ha solo un corpo – che non è nemmeno l’originale – e un’incredibile determinazione che gli permette di fare, potenzialmente, qualunque cosa.
Guardiamo Chara come un personaggio crudele, ma in qualche modo lontano da noi. In verità, Chara è l’umano. Chara è l’unico personaggio che dovremmo sentire come parte delle nostre colpe. La Genocide, nel suo dolore, dovrebbe insegnarci questo.
Ed è pensando alla storia pregressa di Flowey e al suo corpo di mostro condiviso tra due anime così diverse (Asriel e la sua dolcezza e Chara e la sua crudeltà) che non posso fare a meno di teorizzare che l’assenza dell’immagine simbolica di amore, anima, sentimenti e affetti per il nostro fiorellino sia dovuta proprio all’aver conosciuto l’umano, con la potenza della determinazione da una parte, ma anche la complessità di avere un’anima ed essere comunque un essere crudele.
È come se Flowey, simbolicamente, fosse nato dalle ceneri del bene e del male che, nel nostro immaginario comune, corrisponde a umani contro mostri. Ma Toby Fox non ci sta e basa l’intero mondo di Undertale sull’inversione di questi ruoli: sono i mostri a essere dalla parte del giusto – così come sono i mostri a essere più deboli degli esseri umani.

Non si ferma qui: Fox ci spinge non solo a provare empatia verso Flowey, ma a volerlo comprendere, sia per ciò che è stato nella dolcezza di Asriel sia per ciò che è nella crudeltà di un fiore senz’anima. La curiosità di comprendere è ciò che ci spinge a provare la Genocide ed è quella stessa curiosità che ci porta a diventare così più forti di Flowey da spaventarlo e permettergli, in una maniera distorta e terribile, di provare di nuovo qualcosa.
Homo homini lupus (altrimenti non avresti giocato la Genocide)
Il senso di Flowey non è la sua crudeltà. È che non c’è redenzione per l’essere umano. Flowey è l’emblema della nostra incapacità di tenerci le cose belle, di fare del bene in maniera interessata. Perché la necessità di fare la Genocide dopo la Pacifist non è dettata solo dalla determinazione di comprendere in toto il gioco.
Non è una route alternativa dal nome criptico. Si chiama Genocide. Lo sappiamo fin da subito cosa implica. Eppure lo facciamo lo stesso, nascondendoci dietro al fatto che è il gioco che ce lo chiede – anzi, è Flowey! In realtà lo facciamo solo per un motivo: vogliamo vedere cosa succede.
È questo che Flowey vuole dirci: siamo noi umani la faccia crudele di Undertale, lui è solo un fiore che non è in grado di provare niente. È così che magistralmente Toby Fox ci permette di giustificare ciò che Flowey fa: costringendoci a guardare ciò che siamo come esseri umani.
Senza scomodare la Storia, basta guardarci intorno; non penso ci sia bisogno di aggiungere molto altro: la maggior parte di ciò che succede al mondo in questo periodo sembra essere proiettato attorno alla famosa homo homini lupus. O peggio: mors tua vita mea, perché se ci pensiamo Flowey vuole giocare con noi per sempre, ci uccide, è vero, ma ci riporta in vita a suo piacimento. Noi, invece, lo deflagriamo. Quando lo sconfiggiamo alla fine della Genocide, lui non esisterà più; non tornerà più. A meno di non vendere la nostra anima … e diventerà esattamente come era lui.
Thomas Hobbes, filosofo del 1600, riteneva che in uno “stato di natura”, ovvero in una situazione in cui l’essere umano è lasciato allo stato brado, senza regole o una società cui adattarsi, la tendenza sia ovviamente a fare proprio tutto ciò che gli permette di restare in vita. Siamo portati all’autoconservazione, alla prevaricazione dell’altro per sopravvivere.
Il filosofo inglese dà quindi un’accezione istintuale difensiva a questo modo di vivere, che permetterebbe solamente all’uno di andare avanti e che “lo Stato” o una qualche forma di governo super partes dovrebbe interrompere.

Ed è abbastanza plausibile che, seppur magari non in maniera esplicita, tutto Undertale nella figura del protagonista e del suo rapporto con Flowey, abbia preso il via da questa visione dell’uno contro tutti; un uno che abbatte le barriere dello spazio – tempo pur di vedere cosa succede se si annienta il mondo di gioco.
Flowey ci piace non perché ci giustifica nel nostro percorso distruttivo, ma perché ce ne dà la chiave di lettura: siamo noi i veri crudeli del gioco.
Non solo perché completiamo la Genocide per curiosità pur avendo un’anima, non solo perché lo facciamo dopo una Pacifist in cui sono tutti nostri amici e li guidiamo in superficie come fossimo facilitatori culturali, ma soprattutto perché pensiamo al termine del gioco di poter rimettere a posto le cose.
E badate bene: sia che decidiamo di rispondere sì o no all’ultima fatidica domanda di Undertale, il succo non cambia.

Se vendiamo la nostra anima solo per rigiocare la Pacifist e ripulirci la coscienza, facendo finta di non aver capito come funziona la mente di Toby Fox, è il nostro personaggio stesso, in un certo senso, a farcela pesare, rendendoci praticamente una versione 2.0 di ciò che Flowey avrebbe voluto essere.
Ma se anche decidiamo di non farlo, di non venderci, di restare integri sulla decisione crudele di aver distrutto tutto… be’: dovremo convivere con un involucro vuoto e uno schermo nero. E un gioco che, ogni volta che verrà riavviato, ci chiederà la stessa cosa: vuoi vendere la tua anima per tornare a giocare?