Atlas Fallen e l’impegno di una recensione

Dopo l’esperienza con i due capitoli di The Surge, Deck 13 Interactive cambia genere videoludico sul quale puntare, e lo fa esclusivamente su next gen con Atlas Fallen.
Un action-RPG dall’open world diviso in sessioni, ambientato in quel che resta dell’antica terra di Atlas, divenuta ora un mondo desertico pieno di rovine e creature mostruose, governato dal dio del sole Thelos e dalla Regina dei Mille Anni, suo tramite terreno.
Un videogioco intrigante fin dalla sua presentazione, dove il team di sviluppo ha avuto la decenza di comunicare per filo e per segno ogni caratteristica dell’opera.
Pad alla mano, tuttavia, viene fuori più di qualche magagna, ma fino a che punto queste sono in grado di minare l’esperienza di gioco? Fino a quanto può essere soggettivo il surfare tra le dune di questo mondo impersonando l’eroe della storia, provare l’ebbrezza di essere attratti dalle antiche rovine sparse lungo il percorso, dalle missioni secondarie assegnate dai popolani in cerca di aiuto, e dai giganteschi Spettri con i quali si avrà la gioia di testare il sistema di combattimento?
La tirannia di Thelos e la mano invisibile di Nyaal
La terra di Atlas, o meglio quel che ne resta. Un luogo del quale nemmeno si ricorda il nome, dominato dal dio del sole Thelos, tiranno che controlla gli umani dal suo costrutto in cielo e li domina tramite il regno della Regina dei Mille Anni.
L’Essenza è la più importante fonte di energia di questo mondo, ma gli umani la raccolgono esclusivamente per donarla a Thelos.
In questo regno bisogna essere fortunati nel proprio ruolo, poiché si potrebbe anche diventare dei Senzanome: schiavi, in pratica, ai quali viene al massimo affibbiato un nomignolo per indicare la loro mansione.
E se fosse proprio un Senzanome, come il protagonista della storia, a porre fine alla tirannia del proprio dio?
Un evento bizzarro sembrerebbe essere l’inizio di tutto: un oscuramento e una tempesta di sabbia che deviano una carovana diretta alla capitale Lithesta; il ritrovarsi in un accampamento improvvisato, braccati dagli Spettri, le mostruose creature al servizio di Thelos. L’accettare un incarico fortemente rischioso ma di buon cuore porta il protagonista sulla strada per cambiare la storia, con il ritrovamento di un guanto prodigioso che risponde esclusivamente a lui.
Il guanto rinchiude lo spirito di un’entità misteriosa chiamata Nyaal, e offre al protagonista il potere per combattere gli Spettri. Il potere per aiutare i suoi amici e tutte le persone care che incontrerà sulla sua strada, in un cammino divenuto molto più importante di quanto potesse mai immaginare.

La storia appena introdotta è rappresentata in maniera degna, a tratti sorprendente, tramite le varie caratteristiche del gioco.
Il protagonista ha un’estetica personalizzabile dall’editor, in un videogioco che cerca spesso di metterla in mostra, nonostante le armature, ad esempio rimuovendo qualsiasi copricapo durante i dialoghi con gli NPC (anche se è discutibile l’effetto visivo della dissoluzione del copricapo).
Resta comunque un protagonista Senzanome e con un carattere ben definito: quello di un servitore. Un uomo o una donna che porta su di sé il peso della schiavitù, con l’ardore mosso da una situazione disperata, dall’amicizia con i suoi compagni Senzanome e dalla consapevolezza del proprio valore nella società, nonostante la repressione dei suoi superiori.
Tale caratterizzazione è percepibile anche nel doppiaggio (in inglese), come lo è il suo trovarsi spaesato dopo aver acquisito i poteri del Guanto, e il suo buon cuore nonostante la consapevolezza di poter diventare un serio oppositore di Thelos.
Quello che manca a tutto questo è qualche scelta di regia migliore. Sarebbe servita qualche cutscene in più nei momenti importanti, qualche animazione diversa in alcune di esse (sono tutte realizzate con grafica in-game) e alcune sequenze avrebbero giovato di una maggiore durata.
Ad esempio, il ritrovamento del Guanto sarà anche logico secondo la trama, ma sarebbe stato meglio aggiungere qualche evento tumultuoso in più prima di ritrovarlo esattamente fuori dall’accampamento improvvisato.

Altro aspetto che salta all’occhio in questi momenti e non solo, è il comparto grafico che sa molto di retrò per essere un titolo esclusivo per PC, PS5, e Xbox Series X ed S.
L’estetica del mondo desertico resta affascinante, merita la modalità Foto con la quale ci si può sbizzarrire, ma non presenta una cura artistica tale da poter ignorare i suoi difetti, come per esempio avviene da quasi quindici anni con i videogiochi di FromSoftware.
Un problema percepibile in un videogioco dove la maggior parte dei dialoghi con gli NPC ha sempre la stessa inquadratura e delle animazioni limitate, nonostante queste ultime siano paradossalmente più curate di quelle presenti nelle omonime situazioni di un titolo come Final Fantasy XVI.
Ad essere fastidioso è soprattutto il pop-in delle texture visibile negli spostamenti rapidi nel mondo di gioco (provato su PS5). Un aspetto che avrebbe meritato maggior attenzione in un open world che punta molto sul campo visivo e sulla velocità negli spostamenti.
Fra dune e rovine
Atlas Fallen è uno di quegli open world dove nonostante la presenza dell’opzione del viaggio rapido, si potrebbe non avere mai desiderio di ricorrere a quest’ultimo.
Tale pregio è dovuto a due motivi. Il primo è che la struttura open world è divisa in più mappe liberamente esplorabili, non eccessivamente grandi ma nemmeno piccole. Pur non essendo collegate, è possibile passare ogni volta da una mappa all’altra ogni volta che si vuole attraverso il punto di accesso ad essa, una volta sbloccato nella main quest.
Il secondo motivo è la possibilità di surfare sulla sabbia per spostarsi molto velocemente. Questa abilità si attiva semplicemente dando il comando per correre quando ci si trova su una superficie sabbiosa, e oltre a essere molto comoda è anche esteticamente gradevole, tra l’animazione del movimento e lo sfondo di un affascinante mondo desertico.

Nonostante la presenza di una bussola, di indicatori, e dei Sensi di Nyaal per individuare più facilmente l’obiettivo, il mondo di gioco di Atlas Fallen punta molto sull’orientamento visivo, ponendo davanti agli occhi diverse formazioni rocciose, antiche rovine, città, fortezze, e costrutti inumani, spesso di dimensioni colossali.
La vista di ognuna di queste strutture porta sempre il giocatore a incuriosirsi e a voler raggiungerle, grazie anche alla facilità dei movimenti dovuta a salti, scatti aerei e al surf sulla sabbia.
Spesso la destinazione premia sempre con il ritrovamento di un forziere del tesoro, di una sfida con una ricca ricompensa, di un diario da leggere o ascoltare, o di NPC con una missione da assegnare.
Le side quest, sempre narrate in maniera logica, aiutano l’esplorazione del mondo di gioco e possono offrire sfide e ricompense anche più avvincenti rispetto alla main quest.
Quello che manca a tutto ciò è un pizzico di pathos. Difatti, nonostante le missioni secondarie e il ritrovamento di diari e artefatti aiutino egregiamente a narrare il mondo di gioco, non si percepisce in maniera così forte l’essenza del racconto, come invece avviene tipicamente quando si tratta della lore.
L’impeto di combattere
Il sistema di combattimento di Atlas Fallen è sembrato essere ben pensato fin dal trailer di presentazione, e tale si è confermato nel gioco completo.
Si tratta di un sistema che spinge chiaramente il giocare a buttarsi nella mischia, essendo basato sulla barra dell’Impeto.
Questa si riempie man mano che vengono inferti danni al nemico, ma inizia a calare velocemente in pochi secondi quando non si sta attaccando.

La barra dell’Impeto serve ad attivare le Pietre dell’Essenza assegnate che attivano le abilità, attive e passive. Sono dodici Pietre assegnabili in totale: nove passive e tre attive, divise in tre livelli.
Gli slot per le Pietre dell’Essenza si sbloccano pagando, appunto, un costo di Essenza nella voce del menù delle Incudini. Le Pietre possono essere anche potenziate, pagando un costo di Essenza e di altre risorse necessarie, ottenibili nel mondo di gioco, dai mercanti o come ricompensa delle missioni. Tuttavia è possibile assegnare le Pietre di un determinato livello solo negli slot del livello equivalente.
Anche il sistema di cure spinge il giocatore a combattere, dato che gli slot di cura durante le lotte possono essere recuperati solo ricaricando l’Idolo. Quest’ultimo offre anche dei poteri aggiuntivi ogni volta che si usa una cura, tant’è che si possono ottenere diversi Idoli equipaggiabili nel corso dell’avventura.
Le Pietre dell’Essenza e gli Idoli, in aggiunta alla scelta dell’arma, dell’armatura, e persino dei Vantaggi (abilità passive sbloccabili ogni volta che viene potenziata l’armatura) offre la possibilità di realizzare vere e proprie build, permettendo anche di creare fino a tre configurazioni diverse per armi, Idolo e Pietre dell’Essenza, da poter cambiare in gioco (non durante un combattimento).

Un sistema di combattimento da vero action-RPG, con tanto di difficoltà selezionabile che già in modalità “Normale” sa offrire sfide che richiedono di padroneggiare le build, le abilità, l’Impeto e anche il parare i colpi con il giusto tempismo che permette di cristallizzare gli Spettri attaccanti.
Peccato che tutto ciò presenti un problema vecchio come il mondo: la gestione della telecamera, complicata per lo più dal dover gestire spesso un nemico gigante e altri più piccoli.
Non bastano gli indicatori per rendere più gestibile il combattimento, anche se, paradossalmente, la possibilità di giocare in cooperativa potrebbe essere una parziale soluzione.
L’impegno di una recensione
Si torna dunque alla domanda iniziale: quanto pesano i difetti di Atlas Fallen ai fini di una recensione?
Per rispondere a questa domanda non bisogna chiedere quanti difetti sono presenti nel videogioco, bensì dove vanno a posizionarsi. Sfortunatamente per l’utenza, i difetti di Atlas Fallen vanno a intaccare tutti i punti fondamentali dell’esperienza di gioco.
E’ possibile apprezzare tantissimi aspetti di quest’opera, molti dei quali sono davvero affascinanti, ma è pazzesco come ognuno di questi presenti un problema tra i più classici dei videogiochi: comparto tecnico, gestione della telecamera, ripetitività…

A tutti i pregi elencati nell’articolo, andrebbe aggiunto che non si tratta di una produzione Tripla A, quindi gli sviluppatori hanno avuto un budget inferiore rispetto a quanto viene investito per i titoli più importanti sul mercato.
Ma questa non è obbligatoriamente una giustificazione. Saper gestire un budget, specialmente quando limitato, è molto importante in ogni genere di produzione. Non è l’utenza ad aver chiesto un videogioco come Atlas Fallen, sono Focus Home Entertainment e Deck 13 Interactive ad averlo proposto.
Se il budget per la produzione è limitato, forse è il caso di tagliare qualcosa di un’opera che trae chiaramente ispirazione da diversi videogames per edificare la sua struttura, e concentrarsi nel realizzare al meglio i suoi pilastri.