Uno studio in giallo – Da Doyle alla Frogwares: la fascinazione per il genio

Personaggi particolari, spesso controversi, che, a volte, viaggiano nell’ombra dei videogame e vengono ignorati – o facciamo finta di ignorarli – proprio perché sfuggenti, spesso fastidiosi. Ci mettono alla prova, noi e i nostri buoni sentimenti, ci confondono e ci affascinano più di quanto vogliamo ammettere. Cattivi, ma non solo, non sempre.
In questa nuova rubrica, analizzeremo insieme tutti quei personaggi dei videogame che, loro malgrado, restano impressi nel nostro cervello, indagando le motivazioni reali che ci spingono alla curiosità, a volerne sapere di più, a volte, addirittura a voler loro bene.
1887
È il freddo dicembre del 1887.
Un giovane si aggira per le strade di Porthsmouth, Regno Unito, con apparente fretta e una rivista in mano. Entra in un palazzo, si chiude la porta alle spalle, sale di fretta le scale e con le mani tremanti gira la chiave nella toppa del suo studio medico.
Quella rivista, la Beeton’s Christmas Annual, sarà destinata a scomparire una decina di anni dopo. Il giovane medico, invece, no.
Il suo sguardo è fisso sulla copertina che, dorata e con caratteri cubitali rosso rubino, recita: “Uno studio in rosso – di A. Conan Doyle”. Infila una mano nella tasca e stringe le 25 sterline ricevute in cambio. Non aveva ancora la minima idea che il protagonista di quel racconto, un tale Sherlock Holmes, sarebbe diventato più famoso dell’autore stesso – un giovane medico di nome Arthur Conan Doyle.

Chi è davvero Sherlock Holmes?
Holmes, per chiunque abbia approcciato i romanzi e i racconti Doyle, risulta immediatamente molto più che un “personaggio letterario”. È reale, più che realistico; viene fuori da solo dalle pagine del libro. Nonostante le sue doti incredibili, nonostante quel suo modo arabesco di giungere a conclusioni che solo lui vede, Holmes si erge in 3D in tutte le sue stranezze.
Un tossicomane, tra le altre cose, malato di adrenalina, sociopatico, violinista, affascinato dall’unica donna che sia mai riuscita ad ingannarlo, tale Irene Adler, e convivente di un medico militare, il dottor John Watson – nonché narratore di ogni storia, dai romanzi ai racconti.
Un concentrato di follia e genialità, come un frullato di frutta esotica, lontanissima come gusto, ma incredibilmente dissetante.

Il suo modo di risolvere i casi è estremamente unico e dettagliato.
Osserva sempre, osserva tutto, perché, come dice in Un caso d’identità (1891): “Da molto tempo il mio assioma è che le piccole cose sono di gran lunga le più importanti.”
Deduce, unendo i puntini, ponendosi le domande e dandosi risposte solo se coerenti con ogni prova, anche la più piccola, attraverso il ragionamento.
Ricorda praticamente tutto e, quando non riesce lui, ci pensa il dottor Watson, uomo dall’intelligenza mnemonica e visiva.
Ma non basta trovare e ricordare ogni prova e ogni deduzione, se non si selezionano le tracce importanti da quelle fuorvianti, casuali o, peggio ancora, messe lì di proposito per depistare il caso.
E, infine, la più grande dote d’intelligenza del buon Holmes resta sicuramente la sua immensa capacità di tenere la mente aperta e vigile, in ogni singolo caso. Anche nei più difficili o irragionevoli, come ne Il mastino dei Baskerville (1901-1902).

Crimes&Punishments e The Devil’s Daughter: la Frogwares e il suo curioso interesse per Holmes
È esattamente su questi cinque pilastri di competenze che la Frogwares ha intelligentemente creato ad arte due dei videogame migliori sulla figura di Sherlock Holmes, usciti rispettivamente nel 2014 e nel 2016.
Oltre ovviamente a gameplay ben riusciti e sempre diversi per essere affiancati a un genere abbastanza “standard” come l’avventura grafica, è molto interessante notare come alla fine di ogni caso – dopo averlo risolto tra rompicapi, false piste e indagini non sempre semplici, questo bisogna pur riconoscerlo – ci viene chiesto di fare una scelta morale. Si può decidere, infatti, secondo la propria coscienza, di condannare o lasciare libero il criminale in questione.
Sembra una cosa di poco conto, ma i principali dilemmi avuti durante il gioco sono stati proprio di fronte a situazioni al limite, come in The Devil’s Daughter, quando ci si ritrova a scegliere se condannare o meno un padre disperato che cerca di salvare sua figlia. La decisione è particolarmente sofferta, perché tutta la sottotrama del gioco ci porta a comprendere quanto Holmes si senta responsabile nei confronti della sua figlioccia, Kate. Viene, infatti, spesso inquadrato con il libro “Come essere un buon genitore” durante i viaggi di spostamento in carrozza.

Questo espediente empatico della Frogwares è estremamente vincente. Permette, infatti, non solo di rendere più dinamico il finale dei singoli casi, ma anche di lasciare al giocatore la possibilità di “pensare come Holmes” liberamente, in minima parte fuori dal tracciato del gioco.
Una delle parti più belle e intelligenti del gameplay, che personalmente ho apprezzato da morire, è quella delle deduzioni, cui viene dedicato molto tempo nel corso del gioco. Bisogna osservare, trarre conclusioni, provare e riprovare – anche sbagliando – per aggiungere nuovi indizi e nuove prove e avvicinarsi un po’ di più alla soluzione del puzzle.
Altro punto importante dei due giochi Frogwares è sicuramente l’ambientazione e le storie, non solo scritte estremamente bene, ma anche originali e accattivanti, che tengono fedelmente Doyle e il suo modo di raccontare come spiriti guida assoluti, anche nella catena logica degli eventi.

Fascinazione: dalla Frogwares a noi tutti
La casa di produzione di Wael Amr sembra avere una sorta di pattern ben delineato, nello sviluppo delle sue avventure grafiche, quantomeno curioso.
Risale al 2002 il primo adventure su Sherlock: “Sherlock Holmes e il mistero della mummia” sembra essere ancora oggi uno dei più apprezzati giochi sul nostro investigatore di tutti i tempi. Da allora, una lunga trafila di titoli, tutti dedicati a Holmes, intervallati raramente da altri.
È molto interessante come, in un’intervista del 2004 per Adventure-Treff, lo stesso Amr abbia detto:
«Abbiamo sviluppato il primo gioco sul detective (Il mistero della mummia) senza aiuti, ma anche senza alcun tipo di esperienza o budget. Ed è andato benissimo. Ma sentivamo la necessità di sperimentare e ci siamo buttati su un gioco più di avventura e di fantasia, Viaggio al centro della Terra (2003).»
Quest’affermazione è estremamente curiosa. Lo stesso Doyle, infatti, aveva più volte espresso la sua insofferenza verso Holmes – diventato, a quel punto, più famoso del suo autore. Sognava di scrivere un romanzo fantasy o, perché no?, un romanzo storico. Ma il nome di Holmes gli rimase appiccicato addosso fino alla sua morte, avvenuta per un infarto, negli anni ‘30 dello scorso secolo.
Pensiamo, anche, che il peso del personaggio era tale che quando, nel 1917, Doyle pubblicò “L’ultimo saluto di Sherlock Holmes”, con l’intenzione di far morire il personaggio per liberarsene definitivamente, la folla (i fan, li chiameremmo oggi) inferocita lo costrinse a fare marcia indietro, esigendo ancora pubblicazioni – di cui la seguente, se non l’ultima, sarebbe diventata “Il taccuino di Sherlock Holmes”, altri 12 racconti inediti e molto particolari.

Tornando alla Frogwares e all’intervista di Wael Amr, c’è un altro punto, estremamente interessante, che merita attenzione. Il presidente, infatti, conferma:
«Nutro una fascinazione incredibile per Sherlock Holmes, per diverse ragioni, che però possono essere ricondotte a una, principale: Holmes È un cervello. Lo dice lui stesso: Io sono un cervello, Watson, il mio corpo ne è mera appendice. Se consideriamo che l’essere umano è un animale pensante, è anche vero che quelli tra noi più intelligenti sono quelli che si suppone dovrebbero avere maggior successo. Sherlock è così: un cervello incredibilmente logico e pensante.»
Not bad, Amr. Ma non credo che la reale motivazioni di questa fascinazione estrema che ci cattura tutti sia da ricercare esclusivamente nel “cervello” di Holmes, in quella sorta di invidia e stima per la sua innegabile e spiccata intelligenza. No. Credo che la questione sia molto più umana di così e per capirla dobbiamo analizzare brevemente un altro personaggio, fortemente ispirato al detective londinese: Dr House.
Dr House: tra genio, cattiveria e tossicodipendenza
Ufficialmente ispirato a Sherlock Holmes, Gregory House è altrettanto misantropo, misogino, cinico, tossicomane e dai modi rudi. La sua genialità, però, è indiscussa, tanto che sono pochi i suoi collaboratori che riescono ad allontanarsi permanentemente da lui – anche, perché no, per una serie di meccanismi molto simili alla sindrome di Stoccolma, in alcuni casi.
Le similitudini esplicite, però, non finiscono qui: anche lui risolve i “casi” tramite link, deduzioni, indagini e raccolta di prove (spesso illegalmente). E anche lui, come Holmes, ha un migliore amico, il dolcissimo dottor Wilson, estremamente diverso e con cui ha un rapporto estremamente caotico e difficile.
Certo, la sua genialità è terribilmente affascinante, talmente tanto che anche qui assistiamo al miracolo del “personaggio 3D” che – anche grazie all’interpretazione magistrale di Hugh Laurie – esce fuori dal racconto per imprimersi per sempre nella tua mente.
Tuttavia, c’è dell’altro.
House, così come Sherlock, è problematico, irritante, con forti comportamenti antisociali. Chiuso nel suo cinismo, è ambiguo e detestabile.
Ma salva vite umane. Così come Sherlock Holmes.

Nella visione romantica che ognuno di noi ha, si radica così la fascinazione forte per dei personaggi profondamente negativi che però fanno la cosa giusta. Si sbattono, per farla, rischiano la vita o la carriera, cercano in ogni modo la verità perché, ci raccontiamo, in fondo sono esseri umani e vogliono il bene dell’altro.
Holmes, attraverso il suo genio, cerca il colpevole, qualcuno, cioè, che si è macchiato indiscutibilmente di un delitto. Apparentemente, ciò che accade intorno non gli interessa, non è di sua competenza.
Allo stesso modo, House vuole risolvere la diagnosi non tanto per la salute del paziente, ma perché i puzzle lo fanno impazzire, ma gli danno anche un motivo per vivere.
La complessità di personaggi così poco coerenti e crudeli, ci affascina perché ricalcano profondamente l’animo umano, spigoloso e contradditorio, mettendolo in luce.
Ci permette di dare sfogo ai nostri lati “non convenzionali” (così come viene definito House in più punti durante la serie), giustificandoli attraverso i comportamenti – fortunatamente fittizzi- di qualcun altro.
L’ammirazione per personaggi così controversi non è nel cervello, ma nel cuore. In quella parte del cuore, almeno, profonda e nascosta e, a volte, molto piccola, che abbiamo bisogno di nascondere per sopravvivere: magari, prima o poi, cambia anche lui.