Era una moda quella dei Battle Royale?

Con il recente approdo di Vampire: The Masquerade – Bloodhunt nel mercato free to play la già di per sé florida schiera dei battle royale guadagna un nuovo titolo, tanto che viene da chiedersi se quella lanciata da PlayerUnknown’s Battleground nel lontano 2017 non fosse più d’una semplice moda. Cosa che del resto in molti, tra chi si affacciava a questa novità con malcelato snobismo, auspicava a far credere.
È vero che oramai il nome Fortnite campeggia altisonante in ogni discorso relativo al gaming, dalle classifiche dei videogiochi più streammati su Twitch alle fantasiose illazioni di genitori (troppo) preoccupati per la salute dei propri figli; ciò nondimeno bisogna pur constatare che il solco di questo genere videoludico – anche se di genere vero e proprio non è corretto parlare, almeno per ora – si è velocemente saturato, e l’offerta di oggi rispecchia una certa cristallizzazione dell’utenza.
PUBG svetta ancora tra i titoli più popolari del momento, seguito dal fiore all’occhiello di Epic, Apex Legends, Call of Duty Warzone – nonostante un imprevisto e corposo calo di giocatori – e Spellbreak. Non mancano però esempi meno virtuosi, come il fallimentare Hyper Scape di Ubisoft che ha dovuto chiudere i server lo scorso aprile, oppure Fall Guys, rivelatosi più che altro un – piacevole – fenomeno di costume. Qual è allora lo stato del battle royale nell’industria di oggi? Quanto può resistere questa tipologia di videogiochi in un mercato in continua evoluzione?
La genesi del fenomeno
Per comprendere a pieno la parabola evolutiva tracciata dai battle royale bisogna partire da una considerazione storica: l’avvento di PlayerUnknown’s Battleground non è stato improvviso, e anzi si sarebbe potuto anche prevederlo osservando alcuni movimenti interni. La genesi di questo filone ludico può essere inquadrata, tanto per cominciare, da un’indagine etimologica, che svela peraltro l’ennesimo debito cinematografico: Battle Royale è infatti il titolo di un film giapponese degli anni 2000 dove i protagonisti – degli studenti ribelli – erano costretti ad un sanguinario “tutti contro tutti” su un’isola deserta.
Hunger Games seguita dunque sulle stesse orme, ed il roboante successo riscosso dalla pellicola di Gary Ross è tale da consentire una prima – forse inaspettata – contaminazione con il mondo del gaming. Nel 2012 arriva così la modalità Last Man Standing di Minecraft, volta a replicare le meccaniche di gioco istituite e ormai rese celebri dai film sopracitati. Un anno più tardi il noto modder Brendan Green introduce nella modalità standalone di ARMA II – il tanto elogiato DayZ – la prima vera e propria battle royale.

A chiudere il cerchio delle sperimentazioni è Daybreak Game Company che, acquistando la licenza dal suo ideatore, propone allo stesso Green di collaborare per la realizzazione di un battle royale di H1Z1, un survival a tema zombie. H1Z1: King of the Kill è infatti l’ultimo anello della catena a cui far risalire il trionfo di PUBG, al quale si deve l’onere di aver irregimentato quella stessa filosofia ludica e raccolto schiere di utenti grazie ad una sfida dal carattere competitivo e stimolante.
Il fattore mobile
Un aspetto da non trascurare circa le strategie di sopravvivenza dei battle royale è sicuramente quello legato alla loro pervasività sui dispositivi mobile. D’altro canto è proprio questa la frangia più redditizia dell’industria del gaming tout court, e se un certo tipo di game design può anche sparire dallo scenario mainstream per quanto riguarda PC e console, nulla esclude la possibilità di una sua seconda primavera tra le infinite e proficue maglie degli app store.
Stando a quanto riportato dalla società di analisi Sensor Tower al secondo posto tra i titoli più in crescita nel mese di aprile 2022 ci sarebbe proprio PUBG Mobile, il cui autore ha peraltro citato in giudizio non molto tempo prima gli sviluppatori di Garena Free Fire a causa delle evidenti rassomiglianze tra i loro prodotti di punta. Secondo Krafton – l’ideatore di PUBG – Free Fire e Free Fire Max copierebbero infatti “numerosi aspetti di Battlegrounds tra cui l’esclusiva funzione airdrop di apertura del gioco protetta da copyright”.

Una disputa legale che può essere interpretata alla luce della grande concorrenza che caratterizza i rapporti tra le software house in questo settore, ma anche in virtù della facilità con cui proliferano videogiochi alle volte quasi indistinguibili, figli di un modello produttivo piuttosto inflazionato. Se è vero che il punto di saturazione è sempre più vicino man mano che aumentano gli esponenti di un certo genere – con annesso declino dell’innovazione -, pensare al mercato mobile come un’unica realtà capace di espellere le ridondanze è però decisamente fuoriluogo.
Vista la sua vastità, e l’enorme giro d’affari che genera, il panorama del mobile gaming annovera quanti più tipi di offerta possibili, e basta dare uno sguardo alle classifiche stilate da Sensor Tower per rendersi conto della sua eterogeneità globale. Anche una nicchia può essere molto redditizia, specialmente in questo ambito dove gli investimenti sono sempre più ingenti, vuoi per la facilità di accesso che assicura storme di utenti al primo fenomeno del momento, vuoi per i sistemi di monetizzazione estremamente efficaci ormai sdoganati e accettati come quello delle micro-transazioni.
Per cosa c’è spazio nell’industria?
Tornando al panorama generale, comunque, non si può certo dire che vi siano segni preoccupanti per la salute del battle royale nel mercato di oggi. Questo non significa che i Fortnite-like continueranno a dominare la scena per chissà quanto tempo ancora, ma è certo che neppure spariranno nel vuoto, dimenticati come per magia da un’industria che per anni ha capitalizzato massivamente sulla quantità esorbitante di ore di gioco prodotte. Tutto si può dire del titolo di Epic Games, tranne che non abbia lasciato il segno.
Quella che si sta profilando è piuttosto una tendenza alla segmentazione dell’offerta complessiva, come del resto dimostra il successo riscosso da un tactical shooter come Valorant, che si è imposto senza troppi problemi tra le categorie più popolari su Twitch. Anche la scelta di non optare per una modalità battle royale da parte di 343 Industries, che ha invece rilasciato un comparto multiplayer di Halo Infinite vecchio stile, si potrebbe dire, è un segno di come nello scenario attuale vi siano più correnti, più filoni ludici – che pur intersecandosi a volte e attingendo reciprocamente espedienti e meccaniche di gioco, si rivolgono a tipi di pubblico diversi.
Da questo punto di vista, il recente cambio di rotta voluto dalla compagnia del North Carolina assume un significato specifico. Benché in parte risponda comunque al sentimento diffuso tra gli hardcore gamer (che spesso se ne lamentavano), la decisione di rimuovere le costruzioni in Fortnite sussume a una più generale canonizzazione della categoria: da modalità – e quindi forse anche moda – ad un modello più facilmente riconoscibile in quanto tale, un passaggio che rende ora la definizione di genere indubbiamente più calzante.

Con l’arrivo dei battle royale, dunque, è più probabile che si sia assistito alla nascita di un nuovo genere anziché all’ennesimo fuoco di paglia. Forse i titoli ispirati a PUBG e Fornite hanno un futuro roseo che attende solo di passare prima da una sorta di stabilizzazione tra la domanda e l’offerta, smettendo quindi di rappresentare il tormentone del momento, e ritagliandosi di conseguenza una porzione, magari anche generosa, del mercato videoludico, che il mobile e – per nulla da sottovalutare – il mondo degli eSports saprebbero probabilmente anche come supportare a dovere.