Elden Ring – Una riflessione sui pareri contrastanti

Di titoli che hanno letteralmente spaccato in due il pubblico se ne contano parecchi nel panorama videoludico, basti pensare ai recenti casi di Cyberpunk 2077, The Last of Us Parte II e Death Stranding. Vituperati da una schiera di utenti ed elevati a capolavori senza tempo dall’altra, questi sono solo alcuni degli esempi che si potrebbero fare per parlare di quanto facilmente la platea di videogiocatori ceda il passo alla più spregiudicata partigianeria. Dal canto suo, l’ultima fatica di FromSoftware non si esime dal tracciare una linea netta tra fan e detrattori, e anzi semmai costituisce un esempio ancora più peculiare in quanto gioco divisivo.
Benché Elden Ring sia stato lautamente incensato da critica e pubblico, il suo arrivo è stato accolto anche da un corposo scetticismo, perlopiù rivolto al comparto tecnico della produzione. Ma la natura di queste critiche non pone in essere una disamina di tipo qualitativo, quanto più filosofico, e racchiude in sé una critica di ancora più ampio respiro circa la sostenibilità di un simile modello di game design. Quello che si è tanto criticato a Elden Ring non riguarda insomma il gioco in sé, ma la proposta fin troppo conservatrice di una FromSoftware che pare essersi adagiata sugli allori dopo i suoi meritatissimi successi.
Il labile confine tra autorialità e pigrizia
Dal primigenio Demon’s Souls al più sperimentale Sekiro, la parabola tracciata dalle pubblicazioni FromSoftware descrive nel suo insieme un percorso di continua crescita ed evoluzione, alla quale va tuttavia contrapponendosi la tendenza a sorvolare su tutta una serie di ingenuità tecniche; ancora oggi non si contano i meme sul frame rate di Bloodborne, tanto per dirne una. In quanto summa di tutte le opere di Miyazaki, Elden Ring sembra volersi portare dietro anche quello strascico di problemi, rinnovandosi dal punto di vista ludico e creativo, ma rimanendo ancorato ad una messa a punto non proprio soddisfacente.
La quasi totale assenza di intelligenza artificiale pesa più che mai in un’opera cui viene integrata la componente stealth, tanto che assaltare gli accampamenti presenti nel mondo di gioco risulta spesso un’operazione piuttosto macchinosa. E per quanto l’introduzione del salto apra a soluzioni di design inedite, non si può certo rimanere del tutto indifferenti di fronte ad un’animazione così tanto rudimentale. Un frame rate instabile e la qualità altalenante delle texture vanno infine a completare il quadro di una produzione di certo non eccelsa sotto il profilo tecnico.

Altra grande questione che getta non poche ombre sull’operato di FromSoftware è il massiccio riciclo di asset. Se da un lato questa scelta corrisponde al chiarissimo intento di rendere esplicita la contiguità spirituale tra Elden Ring e gli altri Souls, dall’altro il continuo riproporsi dei medesimi moveset, nemici e tipologie di armi evoca una certa sensazione di stanchezza, cui fa eco lo spettro di una pigrizia produttiva non trascurabile.
Scelte che fanno di Elden Ring un titolo difficilmente inquadrabile da qualunque discorso critico che non consideri questa sua particolare natura bifasica: solenne e galvanizzante, in grado di offrire nuovi scorci interpretativi sul concetto stesso di esplorazione in un mondo aperto, il viaggio del Senzaluce nell’Interregno si staglia inevitabilmente contro una rassegna di lacune – o leggerezze – che ne ridimensionano, seppur marginalmente, la pretesa ludica.
Il magistero di FromSoftware
Se oggi l’etichetta “Soulslike” designa non solo una precisa derivazione stilistica, ma soprattutto un titolo prestigioso a cui ambire, è perché l’eredità di quel grezzo Demon’s Souls che nel 2010 riportò il concetto di hardcore nel mercato videoludico ha istituito un vero e proprio canone nella cultura del gaming. A ben pensarci, infatti, la scossa tellurica originata dal suo gameplay criptico e sagacemente trial & error ha scavato un solco tanto profondo da potervi inscrivere, nel tempo, la simbologia di un successo più unico che raro.
In un certo senso è come se si fosse affermato un paradigma del gioco FromSoftware: un’immagine facilmente riconducibile a quel tipo di esperienza punitiva e dalla difficoltà solo apparentemente artificiosa che ha nell’ostilità degli spazi virtuali la propria forza semiotica. Anche a costo di sconfinare in una malcelata apologia bisogna riconoscere che i difetti dei Souls esprimono, almeno in parte, la cifra stilistica di un preciso impegno autoriale. E la mitopoiesi che li ammanta, si potrebbe dire, comprende anche questa reticenza alla fluidità, questo diniego della perfezione.

Elden Ring, tuttavia, coniuga questo retaggio ad una struttura open world che rende alcune scelte obbligate tanto da riuscire nell’involontario disvelamento della fabula, non esplicitando altro che la naturale complessità del medium videoludico. Ne mette così a nudo l’infinita eterogeneità, il filtro da cui osservare per carpire tutti i meccanismi e i modi attraverso cui il videogioco comunica al videogiocatore. La contropartita, purtroppo, è il vuoto anacronismo di quelle stesse scelte che appare evidente pur sotto le cangianti volte di Sepolcride.
Non certo la più tremenda delle sensazioni, del resto la grandezza dell’ultima fatica di Miyazaki risiede altrove: nella strabordante densità di contenuti, nel silenzioso richiamo di un mondo aperto quanto imperscrutabile, nell’estatica direzione artistica che ha saputo plasmare un universo febbrilmente idiosincratico. Da questo punto di vista è anzi parossistico l’atteggiamento di chi si ostina a condannarla in toto per via dei suoi difetti.
Ma è chiaro che lo spartiacque innescato da Elden Ring non tenga conto dell’opera in sé, quanto più del modo di rapportarsi ad essa. Nel farlo racconta di come l’evoluzione ed il progresso cambino la percezione dell’arte; rivendica il piacere del testo di barthiana memoria e svela il più unico dei segreti del videogioco: la potenza del suo linguaggio multidimensionale.