Deathloop – un eterno ritorno contemporaneo

Adrenalinico, frizzante e con uno stile capace di rievocare l’estetica vintage di fine anni ‘60: “Deathloop” è l’audace proposta con cui Arkane Studios mette piede nella next-gen di Sony, sintesi di un estro creativo dirompente e autentico che segue l’abbrivio di ottimi trascorsi produttivi. L’opera del team francese – già autori di Dishonored e Prey – non si discosta molto dal tracciato ludico dei suoi predecessori spirituali, va detto, ma riesce nell’ambizioso tentativo di far confluire tutte le soluzioni dapprima esplorate in un continuum (ed il termine è più appropriato che mai) immaginativo seducente, dall’anima votata all’azione, nuovo e originale nonostante l’eredità accolta dall’assassino della Corona.
Se è vero che – al netto della gradevolissima fluidità dei caricamenti – le uniche pretese next-gen di “Deathloop” siano da ricercarsi nelle consistenti implementazioni di DualSense e Audio 3D, l’ultima fatica di Arkane si attesta comunque come un titolo dal forte carattere, soprattutto per la profondità di lettura che il concept incalza in più di un’occasione, offrendo un punto di vista quantomeno inedito sul concetto di ciclicità del tempo. Non si dica che le aspettative non fossero tali: l’avvento di “Deathloop” ha assunto per molti fan il significato di un rilancio autoriale e, del resto, quanto approdato sugli scaffali il 14 settembre è un prodotto a suo modo unico, strano ibrido ludo-narrativo in grado di coniugare tradizione e novità.
In parte shooter in soggettiva e in parte thriller pluridimensionale, “Deathloop” potrebbe sembrare sulle prime una creatura amorfa, fortuitamente riarsa dalla combustione artistica che forgiò le storie di Corvo Attano ed Emily Kaldwin, nonché l’odissea spaziale a bordo di Talos I. Ma è invero un concentrato fortemente identitario che porta in dote non solo una serie di evoluzioni stilistiche e di game design, ma anche – sul piano contenutistico – tutte le contraddizioni dell’uomo moderno, raccontando di quest’epoca in balia di profonde incertezze e nevrosi collettive con un piglio delicatamente ironico.
Il paradiso perduto
Bagnato dalla risacca di un sornione risveglio sulla spiaggia di Blackreef tra cadaveri di bottiglie vuote, Colt Vahn viene accolto daun vorticoso sfarfallio di pensieri che, sotto forma di scritte, compaiono – letteralmente – ovunque, come uno sciame di dubbi implacabili. Un proemio surrealista che svela fin da subito il tema di fondo, ossia quello del loop: un’anomalia temporale ha reso infatti l’isola un luogo dove le giornate si susseguono inesorabilmente identiche l’una all’altra, in un circolo senza fine. Ogni giorno, su Blackreef, è sempre lo stesso: il primo.
Per mano degli otto Visionari, personaggi in un qualche modo correlati all’integrità del loop, l’isola di Blackreef è diventata così una sorta di paradiso perduto dove poter sfogare le proprie pulsioni represse – il promontorio di desideri folli e inconfessabili di cui Arkane ha approfittato per inscrivere nel world building tutta l’inerzia culturale del XXI secolo. Ha infatti nel caleidoscopico traboccare di forme e colori di Updaam – il cuore pulsante della vita mondana a Blackreef – il diorama di un segmento di società cristallizzato con tutti i suoi usi e costumi nella circuitazione insovvertibile del tempo, la quale – inesorabilmente – ne mette a nudo vanità e vergogne.

In un tale scenario, e nel suo tentativo di riprodurre le psichedeliche arterie di una Swinging London brulicante e avanguardista, senza disdegnare un certo gusto per l’eccesso, si snodano tutte le controversie più intime di questo periodo storico. I Visionari, d’altronde, non fanno che incarnare un certo narcisismo intellettuale squisitamente contemporaneo: grandi inventori spasmodicamente votati all’autoaffermazione, artisti eccentrici e boriosi, accaniti imbonitori; in definitiva, personaggi che vivono nell’ossessione del proprio alter-ego. Ci si ritrova così in un vero e proprio circo dei freaks, lussureggiante e grottesco, surreale e parodistico.
Anche la curiosa implementazione del PvP contribuisce a rendere più sfaccettato l’universo narrativo di “Deathloop”. Con un sistema di invasioni che ricorda quello dei Dark Souls il titolo di Arkane amalgama i tratti più classici dello stealth game a quelli di una caccia all’uomo perfettamente interconnessa sul piano dietetico, e a trarne vantaggio è – prima fra tutte – la figura di Julianna. Nemesi atipica, con la quale si avrà una relazione di romantica idiosincrasia, l’instancabile assassina dai capelli cotonati è la più rappresentativa tra le voci di questa sanguinaria celebrazione del barocco: un elemento di gioco che – grazie alla presenza del loop – rende il paradigma del multiplayer parte integrante del tutto, addensando sfumature più finemente psicologiche e umane all’avventura intrapresa nei panni di Colt.
Il loop: tra deriva e pretesto
Trattandosi di un espediente utile a giustificare meccaniche come il permadeath tipico dei roguelike, un filone videoludico sempre più in vista nel panorama attuale, si potrebbe pensare che il loop venga ripreso assai di frequente in quest’ambito e che il team di Lione si sia pertanto limitato a mutuarne il ricorso. Tuttavia, nella storia recente, solo Returnal sembra farne un uso davvero esemplare, per certi versi comparabile a quanto avviene nell’opera di Arkane: sebbene si tratti comunque di due generi ben distinti (“Deathloop non è un roguelike), i punti di contatto tra le due produzioni profilano una certa coerenza interpretativa del concetto di loop, che lascia spazio solo ad una differenza di natura prettamente filosofica.

L’immaginario di Returnal conduce alla deriva su un pianeta alieno, in un circolo di morte che impedirà a Selene di sfuggire alle misteriose creature che lo popolano – bestie affascinanti che sembrano provenire direttamente dalla penna di H.P. Lovecraft. Se c’è un tema che accomuna le due opere, in questo caso, è quello dello sdoppiamento. Selene troverà infatti cadaveri di altre Selene, così come Colt potrà alle volte parlare con altri Colt di loop differenti. Le linee temporali si concatenano costruendo in entrambe le esperienze una narrazione anch’essa ciclica, fatta di continui ritorni, di dialoghi con altri sé, di profetiche testimonianze lasciate dal passato nel solco di eventi accaduti infinite volte.
Il loop diventa così opportunità, pretesto per raccogliere quante più informazioni possibili giacché, in una dimensione dove tutto si resetta continuamente, l’unica vera arma rimane la conoscenza. Al di là delle diverse conseguenze che il loop avrà sul mondo di gioco nei due titoli in questione (in uno viene riscritto proceduralmente, nell’altro resta tale e quale), permane però una singolare dualità di lettura: in Returnal si è vittime del loop, in “Deathloop” se ne diventa invece padroni. Preso coscienza del tesseratto mortale in cui si trova, un costrutto traballante dove ricominciare significa anche progredire, Colt decide di assecondare le regole del “Primo Giorno” arrivando infine a poterle piegare da sé, conquistando in questo modo una simbolica emancipazione dal proprio immutabile passato.
L’anima escapista di “Deathloop”
«Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!» – Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
L’alba di un “nuovo” giorno è la stessa di sempre, né più né meno dell’attimo che seguita la solita notte, anch’essa simulacro di infiniti tramonti. Smarrito il senso di linearità del tempo, il quale si dipana ora su un circolo scivoloso e magnetico, può dirsi ancora la veglia un qualcosa di reale? “Deathloop”, da questo punto di vista, si pone come una curiosa rivisitazione in chiave escapista dell’eterno ritorno di nietzscheana memoria.

Tutto si ripete, tutto è ciclico: si fa baldoria, si trama di nascosto, si preparano spettacoli, ci si innamora e ci si ammazza canticchiando motivetti lounge in una disinteressata frenesia a tratti grottesca. L’ordito intessuto da Arkane accoglie con i suoi toni sopra le righe l’essenza di quello scambio vicendevole tra passato e futuro già proclamato nelle opere del filosofo tedesco, in un flusso che fa degli accadimenti già vissuti una premonizione di quelli che accadranno e viceversa. Cos’è, in fondo, il loop, se non il perpetuo accrescersi e annientarsi di una volontà collettiva che non vuole altro che se stessa?
Chi ha deciso di raggiungere Blackreef, però, non lo ha fatto tanto per il proverbiale desiderio della vita eterna, quanto più nel tentativo di affrancarsi da una realtà troppo stretta e alle volte incompatibile con la propria natura. In “Deathloop” si assiste alla liberazione degli spiriti animali tanto cari a John Maynard Keynes, ora indomabili sotto l’egida del loop – unica vera certezza in un mondo senza morte. Ma una tale liberazione apre a sua volta le porte ad un tracollo insostenibile, alimentato per anni da routine vuote ma faticose: è la vittoria del kitsch, della smania e del culto su ogni altra forma di convenzione sociale. Un’oscillazione che descrive il sardonico passaggio dalla crisi dei valori ai valori della crisi.
Di questa immane tragedia, tuttavia, solo Colt è veramente consapevole. E se la ride. Forte di una ritrovata solerzia istintiva e furibonda, il protagonista accoglie le ineluttabili verità del tempo e i suoi meccanismi di ripartizione infinita, costringendosi per amor fati ad una reinterpretazione del proprio agire, e – in prospettiva – del proprio divenire. Le continue schermaglie verbali (e balistiche) con Julianna non attenuano poi molto l’ardore di questo eroe temporale – contemporaneo, benché arenato ad una singolarità dal sapore vintage -, anzi ne motivano sempre più gli sforzi, portandolo ad imboccare infine una via di incertezze e dubbi cruciali, senza mai esitare. D’altronde, alla potenza della creatività deve rigorosamente succedere il suo più assoluto e perentorio annientamento: il loop, insomma, deve essere spezzato.