Riscoprire oggi Splinter Cell: il mito stealth andato perduto

Perso tra le retrovie di un mercato troppo vorace e irreversibile nella sua corsa alla spazialità dei mondi aperti (con tutto ciò che essi comportano), il mito di Splinter Cell – icona del filone stealth nato come adattamento videoludico dei romanzi di Tom Clancy a opera di Ubisoft – riecheggia come un ricordo lontano, seppur splendido, nella storia del videogioco: la vetta luminosa conquistata da un publisher che oggi vira evidentemente su ben altri orizzonti.
Quanto avvenuto nel 2013 con il rilascio di Splinter Cell: Blacklist non è altro che la chiosa di un lungo percorso produttivo e creativo culminato con l’adeguarsi alle logiche dell’industry e della sua sempre più marcata tendenza a voler elargire produzioni longeve per soddisfare l’utenza, alle volte famelica di contenuti.
In questa se vogliamo triste giustapposizione, tuttavia, è ancora possibile avere una misura di quanto quello che Ubisoft decise di archiviare come un titolo desueto sia al giorno d’oggi tutt’altro che una produzione stanca e da abbandonare. I suoi troppi anni alle spalle non legittimerebbero una scelta di quel tipo: Splinter Cell è un videogioco invecchiato benissimo.
Il genere stealth
Come risaputo, la nascita del genere stealth ha origini ben più antiche, riconducibili precisamente al 1981 con l’arrivo dell’arcade 005 e Castle Wolfenstein, ma, a ben vedere, il suo exploit è da collocarsi tra le intuizioni di uno dei game designer più influenti ed eclettici del mondo dei videogiochi, l’allora ventiquattrenne Hideo Kojima che pubblicò Metal Gear sotto il marchio di Konami.
La consacrazione del genere ha di per sé un qualcosa di estremamente romantico ed è un perfetto esempio di quella bellezza escogitata tipica dei primi videogames. Non potendo inserire più di tre nemici per scenario a causa della limitatezza dell’hardware, Kojima – che inizialmente doveva progettare un semplice “videogioco di guerra” – decise di cambiare i piani in termini di approccio, orientando l’esperienza interattiva non tanto allo scopo ultimo dell’eliminazione delle forze ostili, quanto più sulla necessità di evitare i soldati per non fare scattare l’allarme in quella che veniva inquadrata come un’operazione di infiltrazione.

Se da un lato, nella terra del Sol Levante, prendeva forma a chiare lettere un nuovo archetipo videoludico, c’è da dire che, dall’altra, la contaminazione fu immediata e ben presto lo stealth venne sdoganato anche in Occidente, trovando nella ormai irriducibile figura di Sam Fisher il volto di quella che sarebbe divenuta poi una saga destinata a fare proseliti con grande facilità, vuoi per il fascino della novità che la proposta di Ubisoft seppe esibire, vuoi per l’inconfondibile carisma – stilistico, narrativo e di gameplay – dell’opera in sé.
Sam Fisher: l’estetica di un mito
A ben vedere, l’etichetta di superuomo starebbe stretta all’agente operativo numero uno di Third Echelon. Sam Fisher, infatti, esemplifica più l’idea di un uomo fragile tanto quanto i suoi nemici: una fragilità che lo espone a morte certa non appena gli AK-47 cominciano a sibilare roboanti perforando il kevlar della sua tuta tattica. Sam, d’altronde, solo in casi rarissimi potrà permettersi di far scattare un allarme, pena – il più delle volte – l’individuazione quasi istantanea, se non addirittura il fallimento automatico della missione.
Quello che contraddistingue il protagonista della saga Ubisoft è più l’abilità strategica maturata con anni e anni di esperienza sul campo che si traduce poi, nella maniera più credibile possibile, negli assunti di un gameplay improntato al problem solving. È necessario essere metodici, scansionare l’area circostante con il visore EEV per rilevare telecamere, sensori di movimenti o mine di prossimità; passare al termico e infine al notturno per individuare la presenza di forze ostili; attendere nel buio più assoluto il momento propizio per giungere alle spalle della guardia ignara e premurarsi di nasconderne bene il corpo esanime, la cui vista potrebbe allertare i suoi compagni repentinamente. Sam Fisher incarna la filosofia della pratica che rende perfetti, la quale implica doverosamente un’imprescindibile pazienza. Attraverso la meccanizzazione dei processi di analisi e di adattamento concernenti l’approccio alla sfida del gioco la serie di Ubisoft ha sancito il trionfo dell’intuizione come virtù prima di un’opera densa di suspense, dove ogni passo ed ogni colpo sparato (o non sparato) può fare la differenza.
Quello che descrive in tutta la sua interezza l’esperienza di un gameplay incentrato su meccaniche di questo tipo, che quasi rasentano il limite ultimo della simulazione, è un tale grado di immersività che sfugge in maniera sconcertante alle produzioni in cui lo stealth compare solo come una componente accessoria. Nei panni di Sam si percepisce tanto la tensione di essere sempre sul cosiddetto filo del rasoio, quanto la paura cangiante provata dai nemici una volta elusa la loro guardia e presi alle spalle in un momento di assoluto silenzio, con la lama sguainata che riflette il loro volto pavido mentre – nella versione italiana – la voce di Luca Ward intona frasi da interrogatorio in pieno stile Tom Clancy. Sequenze brevi di passi fulminei e atterramenti nell’ombra, dunque, il tutto dopo aver soppesato a dovere ogni altra possibilità e scelto l’approccio più sicuro, più efficace. Complice un level design di tutto punto che si è sempre evoluto nel corso dei vari capitoli per mettere a disposizione del giocatore strade alternative ben congeniali, le avventure di Sam Fisher hanno saputo regalare quel mix di azione e ingegno senza perdersi in futili velleità, senza diluire il ritmo narrativo e – soprattutto – senza scomporre il core loop di un impianto di gioco stimolante e soddisfacente sotto ogni punto di vista.

Cos’è successo ai giochi stealth?
Sebbene il mercato non ne senta esplicitamente nessuna mancanza, diversamente si potrebbe dire per tutti coloro i quali, vissute le avventure di Sam Fisher, oggigiorno coltivano quella sempiterna nostalgia dei tempi passati a muoversi nell’oscurità come predatori silenziosi, cercando tra i titoli moderni qualcosa che possa portare come brezza gentile anche solo qualche parvenza di quell’atmosfera da spy story al cardiopalma, tra assassinii furtivi e lunghi momenti di attesa nell’ombra più totale. Ma Splinter Cell non è certo l’unica vittima di questo abbandono culturale: Onimusha, Dishonored, Deus Ex, Thief, lo stesso Metal Gear Solid; sono tutti nomi di grandi titoli stealth che oggi compaiono solamente nelle top dei videogiochi di cui qualcuno vorrebbe un ritorno, ma dei quali sia poco verosimile aspettarsi un qualche sequel, o anche solo un remake.
Ma perché si è giunti a questo declino del genere stealth? Se è vero che nell’ecosistema dei mercati ogni offerta può trovare la relativa domanda, allora a cosa si può attribuire il decadimento di un filone videoludico tanto apprezzato nei suoi anni d’oro? Non può essere solamente una questione di moda, in fin dei conti, altrimenti non si spiegherebbe la resilienza di altri generi quali i metroidvania o i platform, che ancora oggi hanno le loro nicchie. La scomparsa dei giochi stealth ha una scaturigine precisa: l’impazienza endemica della nostra società dei consumi.
Parafrasando la velocità estrema del progresso tecnologico – e dunque produttivo – di cui i videogiochi stessi sono un elaborato, l’industria di oggi mette al servizio del pubblico quanto di più consumabile ci sia sul fronte contenutistico e del tempo materiale. Una strategia produttiva che affonda le radici nella cultura della Silicon Valley, intercettando i presupposti di un modello capitalistico votato all’efficienza (anziché all’efficacia) e dalla quale non può che conseguire un’offerta caratterizzata dalla sovrabbondanza, spesso a scapito dei prodotti meno “ergonomici”. È sistematicamente più semplice motivare il giocatore ad affrontare ore e ore di farming piuttosto che imporgli di rimanere qualche secondo in più nascosto nell’ombra – fermo immobile – ad attendere il cambio di guardia. Non resisterebbe, un gameplay – anzi un’idea di game design – simile in un panorama affastellato di videogiochi immediati dal punto di vista dell’azione e dell’accessibilità, quest’ultima spesso anche economicamente intesa se si pensa ai free to play.
La stessa Ubisoft ha dovuto rivedere il canone di un’altra iconica serie stealth affinché continuasse a prosperare tra le produzioni più in linea con gli standard attuali. È il caso di Assassin’s Creed, nato come action/stealth in un contesto storicamente ben definito e divenuto in seguito un simil-GDR dove la componente furtiva è stata rigorosamente ridotta ad un espediente secondario, tale è la formula in cui può essere inscritta: il contentino per quei pochi che serbano il malinconico interesse.

Il lascito di Splinter Cell
Se non altro, la famosa saga Ubisoft, che conta sei capitoli canonici, rimane tutt’oggi un’esperienza validissima da cui nessun amante del videogame a tutto tondo si dovrebbe sentire esente dal recupero. Tracciata una linea di confine con gli ultimi due capitoli – Convinction e Blacklist, troppo tendenti all’action vero e proprio tanto da disincentivare l’approccio furtivo in certe fasi e limare il sostrato di tensione tipico delle precedenti iterazioni – va detto che riscoprire oggi Splinter Cell rientra nell’ambito del buon retrogaming e può tradursi in una piacevolissima epifania dalle mille soddisfazioni.
Se in alcune meccaniche di gioco la distanza con le produzioni odierne si percepisce come una grande lacuna in termini di progettualità – ad esempio la mancanza di rewards per gli obiettivi secondari e di power up in generale -, è pur vero che sul fronte dell’intelligenza artificiale si approda a vette che paradossalmente paiono tutt’altro che esplorate al giorno d’oggi.
Non passa certo inosservata, infatti, la credibilità con cui i nemici presenti in Chaos Theory reagiscono agli input, che siano una porta aperta o una luce spenta. Il giocatore nei panni di Sam sa benissimo che ad ogni sua azione, ad ogni suo movimento, corrisponderà uno specifico comportamento delle guardie a seconda del contesto. Può capitare ad esempio che un nemico si insospettisca qualora non dovesse sentir rispondere un suo compagno alla ricetrasmittente, oppure che – una volta eliminato un soldato – questi emetta più o meno rumore in base al metodo (letale o non letale) con cui lo abbiamo abbattuto e pertanto sarà d’obbligo rivedere anche le regole d’ingaggio prima di passare all’azione.
Uno sfoggio di potenza in quanto ad intelligenza artificiale che oggi sembra merce sempre più rara. Nella storia recente, solo The Last of Us Parte II ha raggiunto un livello superiore, segnando, con la nonchalance dei titoli che si prendono troppo sul serio, un evidente passo in avanti rispetto ad ogni altro videogioco che implementi meccaniche stealth. Nell’opera di Naughty Dog i personaggi che si incontrano strada facendo comunicano tra loro fino a chiamarsi per nome e reagendo in maniera diversa a seconda di quale compagno si trovi a terra esanime.
Del resto, in Tlou2 il realismo arriva al suo apice videoludico. Ma questo dovrebbe in qualche modo suggerire come sia stato possibile disabituarci ad un tipo di gameplay che richiedesse della sana e onesta pazienza al videogiocatore. La voracità dell’industria che profonde produzioni di ogni tipo con la pretesa di permeare in ogni direzione il desiderio ed il gusto dell’utenza è da una parte quanto di più normale ci si potesse aspettare vista la naturale propensione alla massimizzazione di ogni sistema capitalistico e, dall’altra, il risultato di una profonda incapacità culturale a volersi concedere del tempo. Sono pochissimi i titoli che ad oggi possono dire di aver interpretato adeguatamente il canone della furtività, tra i quali – oltre alla già citata opera di Naughty Dog – compare un mai troppo elogiato Metro Exodus, che fa un buon recupero di alcune meccaniche presenti anche in Chaos Theory. Per il resto, la tendenza a scansare questo tipo di soluzioni ludiche nella stragrande maggioranza delle produzioni doppia e tripla A si esaurisce nella congiunzione tra l’aspettativa del videogiocatore medio – consumatore, in primo luogo – e un mercato a misura d’impazienza, dove viene sempre più difficile vivere esperienze significative per la qualità anziché per la quantità. Che sia, a questo punto, un buon proposito per riscattare i nostri tempi interni quello di rivestire i panni dell’agente di Third Echelon?