Journey, perché la vacanza è in fondo un viaggio

Chi segue Altea sui profili social avrà di certo notato il carosello – pubblicato sulla nostra pagina Instagram – in cui venivano consigliati cinque videogiochi adatti per concedersi il piacere di una tranquilla partita durante la pausa estiva, magari standosene rilassati sotto l’ombrellone mentre si aspetta di fare il bagno, tra una bevanda ghiacciata ed il piacevole scroscio del mare che sopraggiunge all’orizzonte.
Journey è il titolo che viene spesso richiamato alla memoria quando si pensa ad un’esperienza di gioco distensiva e pregna di meraviglia ludica al tempo stesso: l’ideale per concedersi un po’ di relax con un buon videogame in questa calda estate. L’opera – che porta la firma del talentuoso team californiano Thatgamecompany – ci offre un viaggio narrativo fatto di soli scorci e fluidi movimenti tra ambientazioni mistiche, curatissime sotto il punto di vista estetico.
Si tratta di un titolo PS4 ma non occorre disperare se si vuole – come consigliamo – dedicarvi una blanda sessione di gaming comodamente in spiaggia poiché la sua natura di walking simulator ne consente la fruizione anche sui dispositivi iOS.
Tutto d’un fiato
Il gameplay di Journey non richiede nessun tipo di conoscenza pregressa in ambito videoludico, né tanto meno chissà quale abilità. È, al contrario, una produzione che punta tutto sulla semplicità, ma non per questo si deve fare l’errore di confondere il titolo di Thatgamecompany con una di quelle esperienze videoludiche che ben presto si dimenticano, perdendosi nel sottobosco indie a velocità repentine tra le migliaia di altri simili.
L’opera ci introduce in un mondo di gioco meraviglioso, dove tutto riecheggia di un’aura di sacralità, pur mantenendosi lontano dalla pretesa di imbastire un kolossal in materia scenografica. Il cammino si apre ai nostri piedi in una landa deserta puntellata qua e là da antiche rovine e retaggi di simboli sconosciuti – a cui l’assoluto silenzio narrativo concede la libertà di attribuire un’interpretazione piuttosto che l’altra. E mentre il nostro piccolo avatar – una graziosa pellegrina avvolta da una sciarpa magica – comincia il suo viaggio per giungere alla montagna che fin da subito appare come meta lontana, docili melodie scandiscono l’incedere compassato verso nuovi biomi.
Il devolvere della sceneggiatura di paesaggio in paesaggio, però, non è un qualcosa di estenuante, esoso in termini di tempo. Il viaggio di Journey termina dopo un paio d’ore a dir tanto e nessuno, dopo averlo giocato, aggiungerebbe o toglierebbe un minuto all’esperienza in sé. Tutto è in risposta ai nostri tempi interni – non tanto di videogiocatori, quanto più di persone – affinché ci sia sempre riservata l’occasione di apprezzare la bellezza della semplicità – ciò che in Journey fa capolino sul fronte estetico, ricercato in tutto il minimalismo squisito di cui il concept fa un vanto più che legittimo.

Si corre così tutto d’un fiato verso lo scoglio monolitico che campeggia sullo sfondo, tra enigmi mai difficili da risolvere e la promessa – silenziosa e piena di fascino – di un dovere a cui adempiere per motivi che, in fondo, evidentemente non è nemmeno importante conoscere – tanto che Journey sa prendere per mano il giocatore e trascinarlo lungo i suoi lidi con l’entusiasmo a cui acconsentirebbe un bambino meravigliato.
Un po’ di pace
Come dicevamo, il titolo di Thatgamecompany sa essere coinvolgente pur nella semplicità che ne caratterizza il design. Un walking simulator in piena regola, dove l’obiettivo pare essere infatti non tanto la meta proclamata sin dall’inizio, quanto più il viaggio stesso – che reca lo splendore di ambientazioni sempre suggestive e simboliche. Ma perché allora giocarci proprio sulla spiaggia? La verità, d’altronde, è che Journey costituisce un bellissimo percorso ludico/narrativo e non vi è una location più o meno indicata per completarne la campagna. Tuttavia, gli si farebbe un torto a non riconoscere l’adeguatezza con cui si sposa a contesti più spensierati visto che, la semplicità di cui parlavamo, si ritrova – in fondo e soprattutto – anche nei comandi di gioco.
Che a Thatgamecompany fosse venuta l’idea di realizzare un’opera fortemente intuitiva sotto il profilo dell’interazione è chiaro, ma non bisogna certo pensare a questa come una scelta che impoverisca l’aspetto ludico in virtù dell’accessibilità. Journey si fa giocare benissimo, immergendoci fin da subito nel flow della scoperta di quei luoghi votati al suo misticismo laconico e con una colonna sonora che appagherà gli appetiti musicali più esigenti – permettendo, in tutto questo, di utilizzare una mano sola. Essendo il movimento l’unico vero punto d’interazione con il mondo di gioco appare evidente quanto il titolo esautori da sé ogni premessa di sforzo o impegno: ve ne potete stare lì, concedendovi anche il lusso di chiacchierare con la vostra comitiva, mentre il mondo di Journey vi si schiude sotto la comodità di qualche slide.

Non bastasse, in Journey non c’è game over. Pochissime sono le presenze ostili e quando avrete la sfortuna di incapparvi – benché sia un evento più unico che raro – non correrete particolari rischi, se non quello di un accorciamento della sciarpa, con la conseguente perdita di slancio. D’altro canto, non sarà nemmeno necessario setacciare ogni area per trovare i pezzi di stoffa da aggiungere al foulard magico di cui sopra, tale è la disponibilità di punti d’interesse, facili da scovare e sufficienti a rendere lo scorrimento via via più fluido, nonostante non ci si soffermi a raccoglierli tutti. Un’esperienza, insomma, che può dare tanto con poco, con la sola pressione delle dita sullo schermo del telefono mentre ci si gode un po’ di pace davanti alla sua intima estasi visiva.
L’alternativa multiplayer
Fatto curioso, la stessa Thatgamecompany ha provveduto a rilasciare un titolo chiaramente ispirato a Journey, ma in chiave multiplayer. Si chiama Sky: Figli della Luce e condivide con il suo predecessore spirituale il tema del viaggio verso una destinazione lontana – questa volta un grande castello fluttuante al centro di una furibonda tempesta. La semplicità, neanche a dirlo, trova la sua massima espressione anche nelle premesse di questo capitolo a sé stante, presentando alla fin fine un mondo che si nutre in ogni aspetto di richiami al concept di Journey.
Un attingere a piene mani dalla propria stessa opera, sia sul fronte stilistico, sia di gameplay, ma con una sostanziale differenza che ne legittima la produzione a 7 anni di distanza: il fattore online. In Sky: Figli della luce c’è la possibilità di condividere il peregrinare del proprio avatar con amici o anche perfetti sconosciuti, solcando in loro compagnia cieli di nuvole enfatiche e lande che – almeno da un primo sguardo – possono sembrare più cupe e ostili dei paesaggi ameni a cui ci ha abituato Journey.

L’interazione con l’altro assume poi un carattere predominante nell’economia della progressione e del gameplay vero e proprio. L’impianto di gioco ci mette a disposizione un roster base di emote con cui poterci esprimere e dunque comunicare con i nostri compagni di viaggio, asservendo però l’accrescimento di tale corollario di gestualità a piccoli task secondari come la ricerca degli spiriti nelle aree da esplorare. I giocatori sono così incoraggiati a fare nuove scoperte per aumentare sempre più la propria espressività fino a guadagnare emote davvero precipue per piccole occasioni di socialità – virtuale certo, ma non per questo meno significante.
In Sky si può viaggiare mano nella mano tra i rivoli celesti di un panorama sempre più piacevole da indagare, in un crescendo di pathos che si avvale tanto della componente artistica – dedita, seppur rigorosamente semplicissima – quanto dell’anima social che, dietro il fascino della comunicazione non verbale, cela la profondità dell’esperienza condivisa. Insomma, un’ottima idea per chi volesse trascorrere alcuni momenti di piacere videoludico in compagnia nella calda quiete estiva.