Videogames senza parole: quando l’ambiente racconta
Si può raccontare qualcosa senza parole? La logica suggerisce di no, il mondo videoludico ci dice di sì! I titoli che narrano storie senza l’uso della lingua sono molti e lo fanno in una maniera molto più semplice e immediata: il paesaggio che circonda i personaggi.
In questo articolo visiteremo quattro posti davvero incredibili, profondamente poetici e… (quasi) del tutto muti. Giardini in cui si muovono animaletti di lana che ci riportano al tempo della nostra infanzia; inquietanti foreste ai margini dell’inferno popolate da ragni giganteschi; luoghi imprecisati pieni di pericoli e fame… ovunque andremo, in qualunque modo ci arriveremo, sarà l’ambiente a raccontarci la vera storia.
Unravel: tra i fiori di un vecchio giardino…
Chi ha giocato ad Unravel, ricorderà indubbiamente la poesia nascosta dietro ogni ramo e ogni puzzle un po’ più ostico. La dolcezza di Yarny e l’incredibile suggestione dei posti da visitare contribuiscono a raccontarci la storia del dolce animaletto di lana senza che nessuno spiegone subentri al suo posto.
Le uniche parole, infatti, sono poche righe scritte a mano su un album fotografico che troviamo sul tavolo della casa; un modo semplice e immediato per identificare il luogo di appartenenza di ogni ricordo.
Lo stesso piccolo Yarny, dolce e malinconico, ci racconta molto di sè senza dire una parola, attraverso espressioni facciali che sanno regalarci emozioni incredibili, considerato che è sempre un peluche senza bocca.
La solitudine, come specificato da Martin Sahlin, è parte integrante del suo viaggio e lo rende una bellissima allegoria: tutti, infatti, abbiamo tentato di raggiungere qualcuno di importante e distante (emotivamente, ma non per forza) nella nostra vita e nel farlo abbiamo dovuto affrontare difficoltà e “avventure” più o meno pericolose.
È per questo che ogni livello è ambientato in luoghi differenti, in stagioni differenti e con colori molto diversi. Passiamo da un primo livello primaverile e spensierato in un giardino casalingo, all’ultimo livello invernale, pieno di vento e colori gelidi, con la neve che ci sommerge e la lana di Yarny completamente zuppa e pesante, prima di riuscire a tornare a casa e riportare il cuore al proprio posto.
“Quando cresciamo tendiamo a dimenticarc delle persone che amiamo… abbiamo scherzato molto internamente al team sul fatto che speriamo che questo videogame vi faccia chiamare i vostri cari subito dopo”, ha dichiarato lo stesso Sahlin in un’intervista avvenuta poco dopo il rilascio.
E di fatto, la storia che ci viene raccontata tramite piccoli ricordi che il nostro Yarny raccoglie lungo il cammino, non è fatta di parole, ma di pure intenzioni, immagini che vengono poste lì, opache e in controluce sullo sfondo, quasi dimenticate ma mai abbastanza, restando vive anche se sepolte nella nostra memoria.
Limbo: l’inferno è in bianco e nero
Se è vero che anche Limbo, così come Unravel, è un puzzle-platform, è altrettanto vero che l’atmosfera scelta dalla Playdead è diametralmente opposta.
L’intera storia si sviluppa sotto i nostri occhi in un bianco e nero inquietante e oscuro, a tratti opaco, a tratti così definito da permetterci quasi di decifrare le espressioni del nostro personaggio.
Che di fatto, però, non ne ha. E questa è la prova di come una buona atmosfera e un buon paesaggio contribuiscano a farci vivere e pensare di vedere cose che, di fatto, erano nelle intenzioni, ma non nella pratica del videogame.
Legate all’aspetto inquietante dell’ambientazione, lo sono certamente anche le varie teorie sulla reale storia di Limbo.
Non essendoci dialoghi che ci permettano di capire cosa sta succedendo davvero, viene da chiedersi, perchè siamo in questo limbo? Cosa ci è successo? Religione o meno, il “limbo” è sempre inteso come luogo a metà tra la vita e la morte, una specie di corso serale di aggiornamento accelerato.
Realisticamente -più o meno- è lì che ci troviamo, in questa “foresta di mezzo” completamente in bianco e nero, circondata da una luce eterea che non sa ancora di aldilà ma nemmeno troppo di aldiquà. Tutto ciò che sappiamo è che dobbiamo cercare nostra sorella, verosimilmente (lei sì) morta, probabilmente cadendo dalla casa sull’albero che si vede non solo all’inizio, ma anche alla fine del gioco.
La particolarità del gioco, in ogni caso, passa necessariamente attraverso la sua unica veste grafica. Anche la scelta di donare al personaggio occhi che gli altri umani del gioco non hanno potrebbe essere indicativa di un’altra teoria, quasi contraria a quella enunciata nello scorso paragrafo.
Gli occhi luminescenti sarebbero gli occhi del “limbo”: il ragazzino, cadendo dalla casa sull’albero, ha battuto la testa a terra. Questo spiegherebbe anche perché alla fine del gioco, nel momento in cui raggiungiamo nostra sorella, lei starebbe armeggiando con qualcosa a terra. Che sia il nostro corpo?
Ciò che è certo è che di modi per morire del tutto in questo platform ce ne sono tantissimi, essendo di fatto un trial-and-error della miglior specie (e quindi di quelli che ti fanno imbestialire di più…), e sono anche tra i più cruenti e incredibilmente ben resi che abbia mai visto.
Little Nightmares: non è un limbo, è l’inferno del divenire adulti
La crudezza e il dolore racchiusi in Six, piccola protagonista di Little Nightmares, ci riporta in parte a Limbo, ma con maggiore realismo.
Se infatti Limbo ci porta ad un passo dall’aldilà, la produzione Bandai Namco ci fa intendere subito che, per quanto assurdo e sopra le righe, il mondo di gioco è palesemente e chiaramente simile al nostro.
La profondità 3D dei luoghi contribuisce non solo a meccaniche di gameplay piuttosto interessanti, ma anche a rendere la paura del “cosa-c’è-dietro-le-porte” ancora più evidente. Le ambientazioni sono tutte estremamente ispirate, ma anche estremamente simili a veri “piccoli incubi”, sempre a un passo dall’oscurità, che arriva insaziabile durante gli attacchi di fame della piccola protagonista.
Ogni livello è ambientato in una stanza diversa, con le proprie caratteristiche fisiche e risvolti psicologici peculiari, oltre che allegorici.
E sarà proprio il digiuno prolungato a trasformare, proprio sul finale, la piccola Six in un incubo vivente, quando sbranerà “The Lady”, colei che tutto vede e che gestisce quella specie di prigione nella quale la bimba si è ritrovata.
Questa violenza, esplicitata nell’attacco diretto al collo della donna, nonostante sia preparata dal brontolio prepotente dello stomaco della bambina e dalla luce intermittente di un ambiente lasciato per lo più al buio, ci risulta comunque inaspettata, per quanto, almeno in parte, comprensibile.
La trasformazione di Six è avvenuta: ha perso la sua innocenza, ha smesso di scappare, è andata incontro al suo destino e la nebbia oscura che l’avvolge in quel momento è molto diversa da quella sprigionata dalle statuette della donna incontrate lungo il percorso. Non è più distruzione, è accettazione: Six è diventata “un’adulta”.
Tre giochi in rappresentanza di un mondo muto
I tre giochi scelti non sono altro che una rappresentanza di un mondo molto particolare: quello dei videogame senza parole.
La capacità di raccontare, in questi mondi muti, viene affidata solamente all’ambiente, ai colori, alle texture, ma anche alla sua capacità di essere intrinsecamente riferito alla sua stessa storia, in maniera più esplicita come Unravel o più nascosta come in Little Nightmares.
Ciò che li accomuna e li rende diversi dal resto dell’universo videoludico, è proprio questo “modo” di raccontarsi, di autoesprimersi attraverso il semplice uso delle immagini e delle interazioni che gli stessi personaggi hanno con esse.
Sicuramente di più libera interpretazione e di difficile comprensione, sono però spesso i giochi che permettono la massima immedesimazione, luoghi di creazione emotiva.
Sono, quasi sempre, l’esempio ottimale di una storia ben raccontata, il punto di incontro perfetto nel quale si crea la magia dell’empatia.
In fondo, che bisogno c’è delle parole se tutto il resto narra al loro posto?