PS4 a fine ciclo: la top 3 dei giochi

Fine del 2020, fine di un anno travagliato ma molto positivo per i videogiochi, nonostante la pandemia abbia creato complicazioni anche per l’industria videoludica.
Ma la fine del 2020 è anche un nuovo inizio: per il mondo è l’inizio della vaccinazione anti COVID-19, per i videogiochi l’inizio della next gen, con l’arrivo di Xbox Series X, di PS5, e anche delle nuove schede grafiche per PC.
Nell’attesa e nella speranza di un futuro radioso, per il mondo reale così come per il mondo videoludico, ripercorriamo per un attimo il passato: questo articolo vuole essere un elogio a PS4, la console che ho approfondito durante l’ottava generazione videoludica (nonché, oggettivamente, la console dominante di questa generazione).
Un elenco troppo lungo costringerebbe a dedicare meno spazio per ogni titolo elencato, per tanto questo articolo include soltanto la mia top 3 dei videogiochi PS4, ai quali non trovo altri pari merito nella generazione, ma che vanno considerati tutti e tre più o meno sullo stesso gradino del podio.
Bloodborne – Il capolavoro assoluto di FromSoftware
“The blood makes us human
makes us more than human
makes us human no more”
Mastro Willem nell’Official Story Trailer di Bloodborne
FromSoftware, grazie a Hidetaka Miyazaki e ai “Souls”, ha influenzato pesantemente i videogiochi nell’ultimo decennio, creando di conseguenza anche il cosiddetto genere Souls-like. Demon’s Souls, che molti stanno riscoprendo grazie al remake per PS5, è il capostipite; Dark Souls è il gioco che ha reso famoso lo stile di Miyazaki, perfezionando anche alcuni elementi di Demon’s Souls (soprattutto la lore); Bloodborne è il capolavoro assoluto di FromSoftware, in quanto è stato fino ad ora la massima espressione dello stile di Miyazaki.
Bloodborne è più action rispetto a Demon’s Souls e alla trilogia di Dark Souls, ma questo è, appunto, una delle features che esaltano lo stile del game director: la componente GDR utilizzata non tanto per essere più forti contro i nemici, quanto per scegliere come giocare.
Bloodborne presenta solo quindici armi da mischia e undici armi da fuoco (più altre undici armi da mischia e cinque da fuoco presenti nel DLC “The Old Hunters”), ma sono tutte efficaci per il prosieguo dell’avventura.
Si può benissimo affrontare tutto il gioco con le armi iniziali; non c’è alcuna “spada rotta” né armi che variano per lo più nelle statistiche o nel peso, basandosi invece su un moveset ampio per ognuna di esse con la possibilità di trasformare l’arma a comando e usufruire di altre possibilità.
Alcune armi da fuoco possono anche infliggere danni importanti, ma la maggior parte di esse vanno a sostituire gli scudi come armi difensive, bloccando i nemici con gli spari finanche a fare parry, in caso di un colpo al momento giusto. Una meccanica, quella del parry (colpire il nemico al momento giusto con le armi da fuoco per lasciarlo stordito e vulnerabile a un attacco cruento), che inizialmente piaceva meno rispetto a quella degli altri “Souls”, ma che in realtà è oggettivamente più corretta: se non si vuole il parry troppo semplice, come nel primo Dark Souls, o troppo impreciso per essere compreso appieno, allora è meglio avere un parry più sicuro.
Bloodborne è il “Souls” con il single player più bilanciato, con ogni arma che può essere efficace e ogni oggetto che può essere davvero un deus ex machina. Con un equipaggiamento abbastanza libero, grazie all’assenza di peso che permette non solo rotolate veloci ma anche scatti, e infine, la possibilità di recuperare un pizzico di PS persi se si colpisce il nemico subito dopo aver subito danno: caratteristica che spinge ulteriormente all’azione.

Se il gameplay punitivo ma bilanciato è la prima caratteristica che viene in mente pensando ai “Souls”, l’altra è sicuramente il particolare stile narrativo: un’altra feature con la quale Miyazaki ha reso al meglio l’idea tramite Bloodborne.
La narrazione tramite la lore, ovvero la storia nascosta dietro il level e character design, la quale offre la possibilità di completare l’avventura ignorando il significato profondo di tutto, oppure sminuzzare il gioco e divertirsi a scoprire ogni cosa. La lore di Bloodborne è volutamente più aperta rispetto ai predecessori sviluppati da FromSoftware, sviluppandosi lungo un sentiero che in seguito si dirama, per poi ricongiungersi in un unico punto: un punto che può essere una soluzione o semplicemente un concetto.
Una lore più complessa e più aperta è anche più divertente da studiare, ma è l’effetto sorpresa ciò che rende eccezionale la lore di Bloodborne: gli altri “Souls” introducono sempre il gioco con il racconto di qualcosa di epico accaduto in passato, perciò è lecito aspettarsi qualcosa di meraviglioso durante l’avventura; Bloodborne, invece, parte con una storia apparentemente semplice, come un racconto dell’orrore del XVIII° Secolo sulla caccia al mostro, e invece si arriverà a toccare l’orrore cosmico di H.P. Lovecraft.
Bloodborne parte con la città di Yharnam e il suo misterioso sangue curativo, e la sua piaga delle belve: non si ha la minima idea di quanto grandi siano i segreti che verranno svelati.
God of War – Come rinnovare una grande saga
“Faye… cosa devo fare? Nostro figlio non è pronto per portare le ceneri sulla montagna. E nemmeno io.”
Kratos
Nel 1996, Nintendo rivoluzionò la celebre saga di Super Mario con il videogioco Super Mario 64, passando da un platform a scorrimento 2D, a un ambiente 3D in cui Mario poteva interagire con il mondo di gioco in maniera molto più approfondita.
Non che il cambiamento portato alla saga da God of War su PS4 sia paragonabile alla rivoluzione portata da Super Mario 64 nel 1996, che mostrò per la prima volta le potenzialità del 3D, ma è paragonabile, appunto, con il cambiamento che il celebre titolo per Nintendo 64 portò alla saga di Super Mario.
Si tratta di cambiamenti che potrebbero benissimo non piacere, ma che indubbiamente rendono il prodotto più maturo. In realtà, God of War è molto più simile ai suoi prequel di quanto non possa sembrare.
Kratos, in fondo, è sempre lo stesso personaggio in un nuovo mondo che non gli appartiene. Ormai stanco di combattere, pentito del suo passato, ma sempre con il suo carattere spartano, e con l’esperienza che lo porta a non fidarsi più in determinate situazioni. Un carattere che lo condurrà a un rapporto difficile con suo figlio Atreus, ma un evento rocambolesco costringerà padre e figlio ad avventurarsi immediatamente per compiere le ultime volontà della madre defunta: portare le sue ceneri sulla vetta più alta dei nove regni.
Un God of War molto più narrativo ed esplorativo (ma non troppo), con continui dialoghi tra Kratos e Atreus nei momenti calmi dell’avventura che aiutano fortemente la caratterizzazione dei personaggi e del mondo di gioco, soprattutto dopo un determinato momento, quando la narrazione diviene così interessante da riuscire a creare hype anche verso personaggi che ancora non si sono visti in questo capitolo della saga.
Potrebbe sembrare così diverso dai prequel, ma in realtà la saga di God of War non è mai stata solo azione frenetica, come erroneamente si pensa. Forse solo God of War III rientra in questa descrizione, per ovvi motivi di trama, ma la saga è sempre stata piena zeppa di sessioni platform e di enigmi: sempre presenti in questo nuovo capitolo, seppur in maniera diversa e in minor quantità, e sostituiti in gran parte dall’esplorazione e dall’approfondimento narrativo.
La storia all’inizio si prende i suoi tempi proprio per caratterizzare, dopodiché si accende tramite diversi eventi che vanno anche a influenzare pesantemente il gameplay; il tutto raccontato da un comparto tecnico eccezionale, abile anche nel nascondere i propri difetti, e con un’incredibile piano sequenza unico per tutta la durata del gioco: niente stacchi della telecamera, niente caricamenti (che in realtà ci sono ma, appunto, sono ben nascosti), frame rate stabile a 30 fps (che su PS5 può salire a 60 fps e in 4K), alcune scene che questo genere di ripresa riesce a impreziosire, e altre che risultano incredibili proprio perché girate in questo modo.

Anche il gameplay, più tecnico, può sembrare molto diverso, ma non è di certo un nuovo tipo di telecamera e meno orde (che non mancano comunque) a rendere meno frenetico e meno violento God of War, che invece offre un maggior controllo sull’azione rispetto ai prequel dove si tratta più di una prova di resistenza. Dopotutto, già God of War: Ascension aveva tentato di rendere più tecnico lo storico gameplay della saga.
Stavolta Kratos è armato dell’ascia Leviatano, incantata con il potere del gelo, in grado di essere anche lanciata e richiamata a comando. Può anche combattere a mani nude e farsi aiutare da Atreus, con il quale si può anche andare a creare una sorta di combo. Non mancano le abilità sbloccabili per ogni possibilità offerta dal combat system, ma anche in questo caso lo sviluppo è molto più controllato, e vi si aggiunge la possibilità di equipaggiare Kratos e Atreus con armature e altro ancora.
Un gioco a cui sicuramente manca qualcosa del traguardo al quale si era arrivati con God of War III, ma che eleva la qualità della saga in tutti gli altri aspetti. Oggettivamente è così, ma è comprensibile se questo cambiamento non dovesse piacere ad alcuni. Dopotutto, a me non è mai piaciuto Super Mario 64.
The Last of Us Parte II – Pressoché perfetto nell’intento
“I’m gonna find… and I’m gonna kill… every last one of them.”
Ellie nel trailer mostrato all’E3 2016
Ho già parlato, in un approfondimento di poche settimane fa, di The Last of Us Parte II eletto gioco dell’anno a The Game Awards 2020, per tanto cercherò di non ripetermi troppo.
The Last of Us Parte II ha recentemente fatto discutere per aver ricevuto anche il premio Best Direction a The Game Awards 2020, per via del tanto discusso crunch time al quale sono stati sottoposti anche i dipendenti di Naughty Dog nell’ultimo periodo dello sviluppo del gioco. Eppure, The Last of Us Parte II è la realizzazione di un progetto in maniera pressoché perfetta.
Il gioco è migliore del primo capitolo sotto ogni aspetto, sebbene la trama sia meno potente e con alcune situazioni non riuscite proprio benissimo, ma che esalta ulteriormente lo stile anti cliché e anti stereotipi di The Last of Us. Parliamo, inoltre e soprattutto, di una storia con la quale Naughty Dog riesce a mostrare benissimo la differenza narrativa tra un film e un videogioco: la differenza che c’è nel gestire le emozioni tra uno spettatore passivo e uno attivo; quando vedi una scena e ti vien da dire: “oddio no, non lo fare!” Ma in questo caso sei tu giocatore che, purtroppo, devi farlo, altrimenti la storia non va avanti.
Una storia accompagnata da un’ambientazione con uno scopo diverso rispetto a quella del primo capitolo: non più il dover trasmettere sofferenza al giocatore, bensì l’effetto che può fare l’esplorazione di antiche rovine, le quali però raccontano la storia dell’umanità post apocalittica, ma che potrebbero nascondere davvero antichi orrori pandemici in alcuni casi…
Tutto questo è accompagnato da quella che è sicuramente la miglior realizzazione tecnica vista su PS4 e non solo, arricchita da animazioni curate nei minimi dettagli anche in situazioni trascurabili.

Non solo storia e grafica, The Last of Us Parte II migliora anche il gameplay del primo capitolo, arricchendolo con alcuni degli elementi citati prima.
Ambienti di gioco più grandi che offrono al giocatore una maggiore esperienza esplorativa, senza però obbligare: c’è solo una piccola parte open world all’inizio (chiaramente ispirata ad Uncharted: L’Eredità Perduta), dopodiché gli ambienti di gioco possono benissimo essere attraversati più o meno in linea retta, ignorando tutte le macroaree che circondano la strada principale; oppure si può esplorare per trovare oggetti utili, informazioni, ma anche pericoli, i quali però potrebbero rivelare una ricompensa utile.
Gli ambienti più grandi influiscono anche sul gameplay: si può approcciare lo scontro in molti modi diversi, aiutandosi anche con l’erba alta in caso si dovesse scegliere di giocare stealth, ma attenzione: gli ambienti più grandi possono favorire anche i nemici, e le animazioni realistiche si fanno sentire anche nel gameplay. Ad esempio, è difficile restare in piedi e mirare bene quando i nemici ti colpiscono, e l’erba alta non rende del tutto invisibili (una feature molto più realistica rispetto alla stessa presente in altri titoli).
La difficoltà è più bilanciata rispetto al primo capitolo, così come le armi fanno sentire di più la differenza quando vengono modificate. Ma è soprattutto la presenza di due protagoniste, Ellie ed Abby, ad arricchire il tutto, con abilità ed equipaggiamento differenti per entrambe, offrendo così due esperienze diverse all’interno dello stesso gioco sia di gameplay che di narrazione.
The Last of Us Parte II potrebbe tranquillamente non piacere: qualsiasi videogioco ha motivi per non piacere, ma bisogna distinguere la soggettività dall’oggettività, e oggettivamente questo gioco è un capolavoro, finanche un’opera d’arte videoludica.
Questa top 3, ad esempio, è sicuramente più soggettiva: qualcuno potrebbe citarmi altri titoli come, ad esempio, Persona 5, Red Dead Redemption II, ecc. Ma ciò in cui tengo sempre a distinguere l’oggettivo dal soggettivo, è quando si valuta un’opera.