Losing Is Fun

LOSING IS FUN
Il foglio bianco, cartaceo o virtuale che sia, è una delle cose più terrificanti che ci si possa trovare davanti nella vita. Mentre voi siete lì che cercate qualcosa da scrivere, lui sembra fissarvi e chiedervi: “allora? Eh? Eh?”
Il mio primo articolo, quello sulle storie generate dal gameplay, si è praticamente scritto da solo, le parole e i pensieri si riversavano a pioggia dal mio cervello attraverso le dita, rimbalzavano sui tasti e, oplà, sul maledetto foglio bianco! Ma scrivere il secondo… beh, si sta rivelando più difficile del previsto.
UN MOMENTO. Difficile? Lo sguardo mi cade sul pc e sulla PS4, che uso per giocare a Darkest Dungeon e Bloodborne. Due giochi di cui vi ho già accennato, per via della loro capacità di farci creare storie, ma che mi stimolano un’altra riflessione: quella sulla difficoltà dei videogiochi. In particolar modo quei giochi che si divertono a metterci davvero in situazioni spinose, contro boss enormi o contro eventi estremamente malevoli.
Lo so, lo so, vi piace vincere. A tutti piace vincere, ogni tanto pure “vincere facile”. La vita ci mette già abbastanza alla prova di suo, perché subire altro stress mentre si gioca? Beh, seguitemi in questa divagazione e, forse, lo capirete.
È così che ti diverti?
Sarebbe la legittima domanda di una persona non appassionata di videogiochi, o di un giocatore casual, che dovesse vedermi alle prese con Bloodborne, magari al quinto o sesto tentativo fallito contro un boss, quel punto nella mia personale scala della furia in cui ancora non mi esprimo unicamente emettendo versi da scimmia incazzata. Sì, sarebbe la risposta onesta e sincera. I giochi impegnativi sono molto divertenti. Naturalmente non è sufficiente che abbiano un livello di sfida da malattia mentale, altrimenti per realizzare il gioco più divertente della storia non servirebbe altro che una stanza vuota priva di uscite ed un personaggio privo di qualsiasi abilità, incluso il camminare. Wow, che spasso, vero?
Invece, un gioco come Darkest Dungeon o un qualsiasi “rogue-like” (ma OGNI gioco dovrebbe avere questa struttura) si basa su un equilibrio complesso e forse anche un po’ malato. Pensate alla vecchia immagine del bastone e della carota: ritengo che sia la perfetta rappresentazione di quella che, personalmente, considero la perfetta curva di apprendimento di ogni esperienza ludica.
Il giocatore deve sentirsi ricompensato nei suoi piccoli traguardi, ma il gioco deve essere sempre pronto a ricordargli “con le cattive” chi è che comanda. Dark Souls e il suo parente lovecraftiano col pallino della caccia svolgono un lavoro encomiabile, in questo senso: ogni nemico che imparate a sconfiggere costruisce la forza del vostro personaggio, ma anche e soprattutto la vostra sicurezza come giocatore, rendendovi sempre più bravi; ma fate attenzione, è sufficiente una minima distrazione, un secondo di guardia abbassata e siete carne morta. Mai, nemmeno dopo ore ed ore di gioco vi sentirete autorizzati a “mancare di rispetto” ad un gioco del genere.
Per aspera ad astra
Gli antichi romani, che di videogiochi non dovevano masticare poi molto, ci erano già arrivati: “attraverso le difficoltà si arriva alle stelle”. È vero, può capitare di sedersi, aprire il gioco e, dopo un paio d’ore, scoprire di aver fatto pochi progressi. In casi particolarmente sfortunati, e questo accade soprattutto nei “rogue-like”, addirittura di perdere i propri progressi e di dover ricominciare da capo. Può essere frustrante? Sicuro! C’è qualcosa di male in questo? NO, assolutamente!
Ogni volta che lanciate Darkest Dungeon vi trovate davanti ad una schermata che vi ricorda come, in quel gioco, le carte siano truccate a vostro sfavore e di come lo scopo ultimo dell’esperienza sia il saper tirare fuori il meglio da una situazione difficile, molto difficile. Insomma, avete accettato di entrare nella vasca di uno squalo coperti di carne fresca e sangue, il minimo che potete aspettarvi sono un paio di morsi ben assestati.
Sono il primo a non prenderla troppo sportivamente quando in Bloodborne mi ritrovo nel mezzo di una boss fight improvvisa e perdo decine di migliaia di preziosissimi Echi del Sangue, ma non mi sognerei mai di chiedere che questa feature del gioco venisse rimossa. È parte integrante dell’esperienza ed è ciò che rende ogni vittoria così soddisfacente. Perché è di questo che si tratta, alla fine, di soddisfazione.
Un gioco difficile, vi regala una soddisfazione che un gioco più edulcorato non potrà mai darvi; sicuro, può essere bello sentirsi una sorta di dio onnipotente che volteggia sul campo di battaglia seminando morte e distruzione fra le fila del nemico, così come un puzzle semplice può farci sentire intelligenti per la rapidità con la quale lo abbiamo risolto.
Ma è solo quando ci ritroviamo a morderci le labbra, a stritolare il controller fra le mani e spremiamo le nostre meningi fino all’ultima goccia, che sentiamo di poter davvero mostrare con orgoglio il nostro successo, e questo al di là di qualsiasi achievement, obiettivo, trofeo o medaglia virtuale che ci venga assegnato dal gioco. E quando va male, pazienza: cadiamo per rialzarci, parafrasando il buon maggiordomo Alfred. “Losing is fun”, perdere è divertente, fintanto che vi sprona a riprovarci, a sentire quella vocina interiore che ringhia “ancora una prova, stavolta gli faccio vedere io”.
E se smette di esserlo… cambiate gioco, non è mica un crimine! A volte, una piccola pausa è quel che vi serve per ricaricare le batterie e tornare più forti di prima. Chi ha detto che i giochi vadano finiti tutti d’un fiato o in un paio di sessioni al massimo?
In conclusione
Sperabilmente, da questa piccola riflessione, trarrete l’ispirazione per affrontare quei giochi che prima vi sembravano delle torture travestite da videogame. Se così fosse, ne sarò estremamente lieto, specie se doveste divertirvi e scoprire un nuovo modo di vivere la vostra passione per il gaming.
Quello che invece non vorrei assolutamente che accadesse, sarebbe che qualcuno si sentisse autorizzato o convalidato nel comportarsi da snob nei confronti di chi non ha la pazienza, il tempo, l’abilità o la voglia di sbattere la testa contro lo schermo fino ad avere la meglio sul perfido gioco di turno. Ricordate? Ho parlato di soddisfazione ed orgoglio, non di essere degli insopportabili stronzi. Portate pazienza con chi ancora non ha scoperto la gioia di definire una partita a Darkest Dungeon “un misto di ansia e toh, fanculo!
Come quando eviti un incidente in auto per il rotto della cuffia”, per citare un mio amico. Se gli mostrerete la vostra soddisfazione, probabilmente li convincerete a provare. E, se non impazziranno cercando di recuperare tutte le casse di tutte i livelli della Crash Bandicoot: N-Sane Trilogy o a causa di entità tentacolute troppo orribili per lo sguardo umano, ve ne saranno grati.
Articolo di Danilo Riccio