Raccontati una storia – il gameplay può generare delle storie?

C’ERA UNA VOLTA…
Se c’è un momento in cui tutto il peso dei miei ventotto anni mi grava sulle spalle, è quando guardo al mercato dei videogiochi attuale. Ho iniziato a giocare da piccolissimo, con una specie di Super Nintendo così tarocco che a momenti lo si poteva usare per leggere il futuro (o per giocare a Sine Requie :P), per poi passare al Game Boy in quasi tutte le sue incarnazioni e, naturalmente, alle console di casa Sony; ora, la frase che sto per scrivere mi fa sentire antico quanto il tempo stesso: erano altri tempi. Tempi fatti di “couch coop” (un parolone sgraziato per definire quello che ho sempre chiamato “giochiamo assieme”), di “split screen”, senza traccia di gioco online. Tempi in cui si giocava ai videogiochi principalmente per le storie che raccontavano. Beh, eccezion fatta per chi giocava ai titoli sportivi o ai simulatori di treni, immagino, o forse no. Perché, vedete, questa lunga e nostalgica introduzione spruzzata di naftalina conduce al cuore del mio articolo: il gameplay può generare delle storie?
LE STORIE SONO MORTE. O NO?
Al giorno d’oggi, moltissimi videogiochi scelgono di sacrificare o ridurre il comparto narrativo, vuoi perché preferiscano concentrarsi sulla sezione multiplayer, vuoi perché scelgano approcci come quello del cosiddetto “rogue like/lite”, quei giochi che fanno appello al nostro masochismo mettendoci davanti dungeon o ambienti di vario genere, spesso generati proceduralmente e perciò sempre diversi, con una premessa che solitamente si riassume in “vai avanti finché non schiatti. Poi ricominci da capo.” In tutto questo, capite bene, c’è poco spazio per le narrazioni approfondite. Ma quindi, dove stanno le storie, in questo tipo di giochi? Se avete risposto “nel gameplay”, sono fiero di voi! Quasi chiunque abbia giocato titoli come X-com, Sunless Sea, Darkest Dungeon o un qualsiasi gioco della serie Dark Souls (e sì, ci includo anche Bloodborne) per un tempo sufficiente a superare i primi minuti di gioco avrà una storia da raccontarvi sulla sua partita.
Colpi fortunati in situazioni disperate, combattimenti con boss che hanno svegliato ed allarmato mezzo quartiere per via delle irripetibili imprecazioni scagliate, per non parlare degli autentici eroi che emergono da queste furiose sessioni di gioco, innalzandosi dal loro semplice status di “personaggio usa e getta generato più o meno casualmente”. Quando giocavo a Sunless Sea, splendido gioco dagli echi lovecraftiani che unisce una sorta di “choose your own adventure book” con una fase di esplorazione navale in stile “rogue-like”, una delle cose più belle in assoluto è stata la creazione di un gruppo Facebook privato con alcuni amici che possedevano il gioco, nel quale postavamo epitaffi che commemoravano le gesta dei nostri personaggi, morti definitivamente a causa del permadeath.
LA MORTE E’ IL SALE DELLE STORIE
Proprio il concetto di permadeath è una delle meccaniche che aiuta maggiormente la generazione di storie: quando ogni personaggio è unico, risulta naturale affezionarcisi, sentire ogni ferita come qualcosa di grave, perché non c’è la rassicurante certezza di un checkpoint a tenere a bada la paura, non ci sono vite extra e il culo pixelloso del vostro beniamino è appeso a un filo sottilissimo; chiedetelo a un giocatore di X-com, cosa si prova nel vedere il proprio soldato preferito venire colpito da un critico sferrato da un alieno dall’altra parte della mappa, con l’obiettivo della missione che, improvvisamente, viene affiancato da tutta una serie di possibilità aggiuntive: meglio sacrificare l’eroico soldato per un bene superiore? O forse vale la pena di cercare di stabilizzarlo con un prezioso medikit, esponendo il medico ad altri attacchi? Vada come vada, da quella situazione puramente “meccanica”, creata dalla dinamica di gioco senza una trama che la prevedesse, sorgeranno storie tragiche, epiche, di vittoria o sconfitta. E le avrete scritte voi, giocando.
Forse non ve ne siete mai accorti, o forse sì e queste righe vi sembrano banali come il gelato alla vaniglia (che però è taaanto buono), ma quando giocate a titoli che vi forniscono poca o nessuna trama, siete voi stessi a creare delle vere e proprie leggende, che poi trasmettete ai vostri amici non come mere telecronache di turni o sequenze di attacchi, ma come autentici racconti pieni di dettagli sul vostro stato d’animo o su quanto “buona donna” fosse la mamma di quel maledetto boss. Dopotutto, la dinamica del gameplay come fonte di storie è la base di un passatempo che ha fatto da nonno per i moderni videogiochi d’avventura: il gioco di ruolo pen&paper, quello di Dungeons&Dragons (o di quel Sine Requie di cui vi accennavo in apertura). Una storia che costruite dando senso ad un pezzo di carta con dei numeri scritti sopra ed una manciata di strambi dadi colorati, che determinano vita, morte e miracoli (anche letterali, se giocate un Chierico) del vostro personaggio.
NON SOLO ROGUE-LIKE
Naturalmente, questo può avvenire anche in un gioco con una trama più lineare, non è una prerogativa dei “rogue-like”: un esempio? In Pillars of Eternity (o qualsiasi gdr che vi permetta di creare personaggi secondari da zero), ho creato una ladra Deiforme della terra, Melohra, perché dovevo esplorare un tempio sotterraneo. Melohra si è quindi unita al gruppo nella taverna di Valdoro, giovane e all’inizio della sua carriera, pian piano si è rivelata sempre più utile, finendo col guadagnarsi una posizione di prestigio come guardiana della fortezza del mio personaggio principale. E certe partite di Overwatch, per spettacolarità ed intensità, non hanno niente da invidiare ad un film d’azione, mostrando come le storie possano nascondersi anche nella tanto temuta zona d’ombra dei giochi competitivi, ritenuti spesso utili solo come poligoni di tiro nei quali svuotare il caricatore della propria rabbia ed agonismo. È vero, rispetto ai tempi andati (decidete voi se fossero “bei” o meno, ma occhio che spesso la nostalgia è fin troppo indulgente), le campagne per giocatore singolo di oggi sono quasi sempre ridicole per contenuti e soprattutto durata, con le dovute eccezioni. Ma pensate ancora più indietro nel tempo, a quando i videogiochi li si faceva in una o due persone in casa, manco fossero pasta all’uovo: grafica minima, trama riassumibile in “tu buono, loro cattivi, tu finisce livelli e vince” ed una vagonata di fantasia ed immaginazione che rendeva quei cubetti vivi ed epici. Fate come quei giocatori di una volta, prestate attenzione al gameplay. Raccontatevi una storia, potrebbe piacervi.
Articolo di Danilo Riccio