Il manicomio come arma del regime. Renato Sasdelli racconta quei matti di antifascisti

Renato Sasdelli, nel suo volume Quei matti di antifascisti, cinquantatré storie di sovversivi finiti in manicomio durante il fascismo, edito da Pendragon nel 2022, ha fatto luce sull’apparato repressivo del fascismo, passando in rassegna alcune delle storie più particolari relative all’area bolognese ed esaminando l’uso politico del sistema manicomiale del tempo.
Sovversivi, reali o presunti, venivano internati con il favore dell’Autorità giudiziaria e poi considerati come vittime di manie di persecuzione, ossessionati e costretti a subire atroci vessazioni psicologiche e fisiche.
Così pazzi da sfidare il regime
Malattia mentale, era questa l’etichetta apposta su coloro che non rappresentavano il modello costituito, il perfetto italiano machista disegnato dal regime. La reclusione era una via di disciplinamento che auspicava quindi al termine non la dimissione quanto la liberazione.
Ogni compotamento estraneo al rigore fascista era sintomo di squilibrio mentale e i portatori di questa dubbia moralità rappresentavano un elemento nocivo alla sanità della stirpe.
Nocive erano quindi le donne che rifiutavano di conformarsi allo stile di vita del regime, che non volevano essere ridotte al ruolo di fattrice di figli e di luce della casa, non disposte a sacrificare sé stesse e considerate per questo malacarne. Ma nocivi erano anche, e soprattutto, gli omosessuali, accusati di tradire i principi morali e di traviare la tanto osannata maschia gioventù fascista; nei manicomi dovevano essere curati, perché non conformi alla morale.
L’arma silenziosa del regime
Il manicomio, però, non era l’unico mezzo di eliminazione del dissenso. A parte l’uccisione e il carcere, molti uomini, soprattutto nemici politici del duce, venivano anche puniti più segretamente e meno dolorosamente con l’arma sileziosa del regime, il confino.
Il confinato era un recluso, soggetto a domicilio coatto in un luogo isolato in cui vigeva una disciplina di tipo carcerario. Furono circa 17.000 i condannati al confino durante il ventennio fascista. Un esempio più noto è forse quello di Curzio Malaparte, un intellettuale prima sostenitore e poi oppositore del regime fascista, conosciuto per il suo camaleontico modo di pensare e di essere e che rimane ancora oggi uno degli autori più interessanti della letteratura del Novecento.
Dopo un mese di reclusione presso il carcere di Regina Coeli, Malaparte fu condannato a cinque anni di confino nell’isola di Lipari. Erano proprio le piccole isole del Meridione le mete privilegiate dal regime per attuare la misura preventiva del confino, che doveva avere lo scopo di mantenere l’ordine e non tanto di punire fisicamente.

Il volume di Renato Sasdelli, seppur ristretto all’area bolognese, si dimostra un prezioso documento storico, un serbatoio ricco di volti affascinanti che però, purtroppo, sono poco mostrati. L’unica pecca, infatti, consiste nella scarsa presenza di materiale fotografico che permetta di inserirsi maggiormente nel contesto manicomiale e abbinare un volto alla storia raccontata.
Le reclusioni punitive sono lo specchio di una umanità sofferente, uno spaccato di Italia che ha provato ad alzare la testa di fronte al regime e che per questo è stata umiliata oltre che punita.
Riprendendo le parole di Guglielmo Ferrero: “La repressione violenta ha anche il torto di insuperbire gli anarchici […] Invece l’invio in Manicomio […] sarebbe una misura più pratica […] Perché i martiri sono venerati; dei matti si ride – ed un uomo ridicolo non è mai pericoloso.”