God of War – Un’ode al gioco dell’anno
Nel mondo videoludico, i premi non vengono riconosciuti dall’utenza allo stesso modo di altri generi di premi, come ad esempio i premi sportivi o cinematografici (e anche questi vengono messi sempre più in discussione), ma la cerimonia The Game Awards sembrerebbe avere un valore notevole, al punto tale che la notizia di God of War eletto gioco dell’anno a The Game Awards 2018 ha avuto risalto anche su pagine web che trattano poco i videogiochi.
Anche noi di Altea Gamer Squad pubblicammo una recensione di God of War scritta dal nostro Fabio Montefiori, e in questo articolo non intendo certamente recensire nuovamente questo gioco. Andremo a invece parlare del lavoro che c’è stato da parte del team Santa Monica per creare il quarto capitolo principale della loro celebre saga, nonché un altro capolavoro, e delle scelte che li hanno portati a ricevere i premi vinti a The Game Awards 2018, tra cui il premio più importante.
Sapersi rinnovare
La paura più grande dei fan di God of War per il nuovo capitolo, era di ritrovarsi un gioco che di God of War avesse soltanto il nome, e che sfruttasse il brand per far soldi.
Dopotutto, nonostante avessero precisato fin dall’inizio che si trattasse del seguito di God of War III, il titolo del gioco non presenta alcuna numerazione né sottotitoli. Una caratteristica, questa, tipica dei reboot, a cui i numerosi cambiamenti annunciati facevano effettivamente pensare.
Sony però si è dimostrata molto affidabile con i titoli first party negli ultimi anni, e sicuramente Cory Barlog, tornato in Santa Monica Studio dopo circa cinque anni d’assenza, ha trovato il supporto e la libertà creativa per soddisfare i suoi desideri professionali maturati negli anni passati.
Barlog ha collaborato con Square Enix per il reboot di Tomb Raider del 2013, ed è facile pensare che ciò l’abbia ispirato; così come è inevitabile un paragone con The Last of Us, visti anche i buoni rapporti con Neil Druckmann di Naughty Dog. In un’intervista, Barlog ha detto di essersi posto tra gli obiettivi per God of War il non voler fare un open world né un Dark Souls, nonostante gli piaccia la celebre saga di FromSoftware, ma trovo facile leggere in queste parole l’ammissione di essersi ispirato anche a questi generi videoludici.
Il team Santa Monica è riuscito così a rinnovare God of War, non con un vero e proprio stravolgimento come si poteva pensare, bensì riproponendo le basi della saga sotto una nuova veste. Nonostante le intenzioni di Barlog fossero poi quelle di creare una storia comprensibile anche senza aver giocato i precedenti God of War, bisognerebbe conoscere almeno i tre capitoli principali della saga per comprendere il nuovo Kratos e apprezzare appieno la narrazione della sua nuova avventura.
Una delle prime cause a far storcere il naso all’annuncio di questo gioco è, a mio parere, un errore comune nei confronti di God of War, ovvero quello di considerarla una saga prevalentemente hack ‘n’ slash. In realtà, in God of War sono sempre state presenti moltissime sessioni platform, soprattutto in God of War II che è l’altro titolo della saga che vedeva Cory Barlog alla direzione.
Purtroppo, anche in questo quarto capitolo, così come nel terzo, gli enigmi (che sfruttano per lo più la meccanica del lancio dell’ascia e delle frecce di Atreus) non sono al livello dei primi due God of War. Ciò è probabilmente dovuto anche al fatto che questo capitolo richiede una maggior scorrevolezza al fine narrativo (argomento già discusso in un precedente articolo).
La narrazione per l’appunto fa un grosso balzo in avanti con questa nuova struttura di gioco. Con un ambiente più grande e liberamente esplorabile, è necessario un approfondimento della lore utilizzando diversi metodi.
Innanzitutto, il dialogo continuo tra Kratos e Atreus nelle fasi d’esplorazione, soprattutto durante gli spostamenti in barca. Un metodo narrativo, molto comune al giorno d’oggi, che permette di caratterizzare i protagonisti e di approfondire il loro legame. A un certo punto del gioco, poi, i dialoghi diventeranno molto più interessanti, al punto tale da riuscire anche a dare una forte caratterizzazione a un paio di personaggi che non compaiono, ma che sicuramente vedremo nel sequel.
Un elemento che sicuramente arricchisce la lore è il diario di Atreus, in cui vengono raccolti i suoi pensieri, il bestiario, i collezionabili e informazioni del mondo di gioco. Il diario ha anche un uso pratico ai fini del gameplay, fornendo informazioni sui mostri per il combattimento e sulle sfide.
In un mondo così grande non possono mancare le missioni secondarie. Alcune semplici, altre decisamente più interessanti, seppur non eccezionali, ma tutte con la giusta narrazione e sempre piacevoli da giocare.
Tutto ciò è sostenuto da una trama di alto livello. La parte iniziale è a rilento, andando piacevolmente a perdersi nell’approfondire il rapporto tra Kratos e Atreus e nel raccontare la mitologia del nuovo mondo di gioco, e comunque senza disdegnare l’azione. Da un certo punto in poi, l’intreccio narrativo si fa più interessante, anche con più azione, e non mancheranno i colpi di scena. Non ci è dato conoscere gli eventi tra God of War III e questo nuovo capitolo, ma la storia ha un inizio e una fine senza alcun buco di trama.
God of War ha vinto anche il premio come miglior gioco action/adventure a The Game Awards 2018. Sebbene anche God of War III ricevette la candidatura nel 2010, questo nuovo capitolo è sicuramente quello che più di tutti rientra nella categoria.
Anche il sistema di combattimento poteva sembrare troppo diverso dal solito, privo della frenesia tipica di God of War. In realtà, anche qui, in fondo, abbiamo lo stesso sistema di combattimento; con meno orde, che comunque non mancano, ma molto più tecnico, rimanendo comunque frenetico e fornendo sempre la possibilità a Kratos di uccidere ogni nemico in maniera brutale.
La nuova telecamera “over the shoulder” e la hub dei nemici permettono un maggiore controllo sull’azione. Lo stesso vale per le skill che, anziché sbloccarsi in automatico accumulando punti esperienza, sono ora racchiuse negli alberi delle abilità.
Si potrebbe dire che il nuovo tecnicismo di questo sistema di combattimento, si ha grazie alla componente ruolistica, ormai ricercatissima in ogni videogioco al giorno d’oggi e presente in piccola parte anche in God of War. Oltre agli elementi già citati, a spiccare in questa componente sono senza dubbio le statistiche di Kratos e l’equipaggiamento, con le quali è possibile addirittura creare qualche build.
Da non sottovalutare è anche il supporto di Atreus: inizialmente utile come semplice distrazione per i nemici, diventerà sempre più letale grazie a nuove abilità e pietre curative, nonché utile per allungare le combo di Kratos.
Piano sequenza
Quando Cory Barlog, collaborando con Square Enix, propose di girare il Tomb Raider del 2013 in un solo piano sequenza, lo presero per pazzo. Anni dopo, è riuscito nell’impresa con God of War.
Il piano sequenza è una tecnica cinematografica che consiste nel girare un segmento narrativo tramite una sola inquadratura. Dunque, girare un intero film in un solo piano sequenza significa che la telecamera continua a riprendere per tutta la durata dell’opera, senza alcuno stacco e senza alcun taglio e montaggio in seguito.
Per girare un film in un solo piano sequenza è necessario, dunque, che non avvenga nessun errore per tutta la durata dell’unica ripresa che la telecamera farà mai sul set. I rari casi di film girati con questa tecnica hanno richiesto mesi di prove per gli attori, dialoghi improvvisati, oltre un’ora di riprese no-stop, ecc.
Tutto ciò è più semplice in un videogioco, perché essendo interamente digitale, alla fine permette sempre di apportare delle modifiche, nonostante la partecipazione di attori con il motion capture.
Ciononostante, l’opera di Barlog resta comunque un’impresa: un videogioco girato in un solo piano sequenza richiede, ad esempio, che non sia visibile alcun caricamento durante la partita. Difatti, in God of War c’è solo un caricamento un po’ lungo alla ripresa della partita salvata, dopodiché la telecamera riprende l’intero gioco con una sola inquadratura, passando continuamente dal gameplay ai filmati senza alcuno stacco, andando avanti così fino alla fine del gioco, finanche nell’endgame. Solo il menù di pausa e l’uscita dalla partita permettono di interrompere il piano sequenza.
Altre necessità per questa scelta sono un framerate granitico, la realizzazione poligonale che deve essere della stessa qualità sia in-game che nei filmati, e una regia di livello.
God of War riesce a soddisfare tutto questo, con framerate fisso a 30 fps e una qualità poligonale tra le migliori di questa gen. Infine, il piano sequenza unico permette anche un paio di momenti che non avrebbero avuto lo stesso effetto con la regia classica; in altri momenti ancora, invece, è sbalorditivo vedere come siano riusciti a riprendere eventi rocamboleschi con una sola inquadratura.
La bravura dei Santa Monica non sta solo nell’aver saputo programmare un gioco di qualità, ma anche nel saper nascondere i difetti: i caricamenti, ad esempio, ci sono eccome in realtà, ma non si vedono. Un altro esempio, è che la mimica facciale durante i dialoghi in-game non è dello stesso livello di quella dei filmati, ma è anche vero che in generale si tratta di una mimica che non è, ad esempio, ai livelli di quella di Uncharted 4, anche perché i Santa Monica forse non avevano bisogno delle stesse espressioni dei titoli Naughty Dog (Kratos ha la barba folta in questo capitolo, e come al solito ha sempre un’espressione che va dal serio all’arrabbiato).
Come già accennato, la grafica è eccezionale nella realizzazione poligonale, soprattutto nei particellari, ma facendo sempre il paragone con Uncharted 4, è meno curata nei fondali. Tuttavia, la telecamera “over the shoulder” non punta troppo lontano da Kratos, e per gli spostamenti nel Lago dei Nove è stato usato il trucco della nebbia.
Endgame
Di gameplay, narrazione, comparto tecnico, ecc. ne abbiamo parlato con una recensione su 2duerighe.com come avranno fatto molte altre pagine web che trattano di videogiochi. C’è però qualcosa di cui certamente nessuno vi ha parlato all’epoca, per il semplice motivo che trattasi di una modalità aggiunta al gioco il 20 agosto 2018: il New Game+
God of War ha una struttura sandbox, ma la maggior parte dei nemici non viene respawnata; la maggior parte dei dialoghi durante l’esplorazione avvengono in base alla trama e alle missioni secondarie; e alla fine ci si ritrova con la rigiocabilità ridotta ai soli regni che equivalgono alla vecchia modalità “sfide”.
La modalità New Game+ era necessaria per l’endgame. Questa funziona in maniera simile a quella presente in altri giochi: si ricomincia il gioco daccapo mantenendo tutto l’equipaggiamento raccolto, i potenziamenti, e le abilità sbloccate nella partita precedente. Andranno persi, invece, i dati raccolti nel diario e le abilità di Atreus (che ritroveremo già sbloccate dopo gli eventi della storia che le rendono accessibili).
Durante la nuova avventura si raccoglieranno versioni molto più potenti degli oggetti, comprese armature totalmente nuove e talismani con nuove abilità, in modo tale da poter potenziare ulteriormente anche il miglior equipaggiamento possibile di Kratos.
Le nuove armature e talismani si possono potenziare tramite un nuovo oggetto poco comune, lo Skap Slag, che in genere sostituisce gli oggetti per aumentare la barra della vita e della furia (che sicuramente saranno già al massimo in NG+) nei forzieri delle Norne.
Un’altra possibilità in NG+ è quella di scambiare, nelle botteghe dei nani, i punti esperienza con l’argento. Un’opzione molto utile, in quanto è probabile che le abilità di Kratos e Atreus siano già state tutte sbloccate in NG+; servirà invece molto argento per pagare i potenziamenti dei nuovi equipaggiamenti.
I nemici in NG+ sono più forti, in modo tale da adattarsi fin dal primo scontro a un Kratos molto più potente di quello che è all’inizio di una partita normale. E’ anche possibile cambiare fin da subito la difficoltà di gioco, compresa quindi la possibilità di passare in modalità “Un vero God of War”.
In verità, il cambio di difficoltà potrebbe essere il vero metodo per ottenere un livello di sfida maggiore, in quanto il livello superiore dei nemici potrebbe non bastare a fermare un Kratos ben equipaggiato e con il giocatore che ormai padroneggia tutte le sue abilità.
Tra l’altro, giocare in NG+ a difficoltà “Cercatore di sfide” farà si che tutti i nemici possano attivare la loro modalità “elite”, esattamente come avviene a difficoltà “Un vero God of War”.
Ritengo, tuttavia, che fare una seconda run a difficoltà “Un vero God of War” sia una scelta migliore. In questa modalità, il gioco è talmente difficile che potrebbero volerci decine di tentativi addirittura contro i nemici nel primissimo scontro. Sarebbe bene conoscere a fondo il sistema di combattimento prima di avviare una nuova partita a questo livello di difficoltà, che offrirà davvero una giustificazione valida per un po’ di esplorazione prima di proseguire negli obiettivi della main quest, in modo tale da ottenere esperienza ed equipaggiamento necessari a rendere più agevole questa ardua avventura. Da non dimenticare, infine, che anche in questo caso si può rigiocare il tutto in NG+.
C’è anche da dire che una seconda run in God of War risulta utile anche a livello narrativo, in quanto permette di cogliere anche i più piccoli dettagli nella narrazione, conoscendo già tutti gli eventi della storia.
Non è tutto oro quel che luccica
God of War è un capolavoro; il capitolo della saga che più rientra nella categoria action/adventure e che ha meritato il premio di categoria a The Game Awards 2018.
Un gioco pensato, studiato, e messo in pratica magistralmente a livello di gameplay, narrativa, grafica, regia, bilanciamento, ma anche e soprattutto aver saputo allo stesso modo rinnovare ed essere fedeli alla saga. Un gioco che, appunto, ha meritato anche il premio per la miglior game direction.
Non vi sono dubbi che il confronto per il premio di gioco dell’anno sia tra God of War e Red Dead Redemption II, e non è affatto scandaloso che questo premio a The Game Awards 2018 sia stato assegnato al titolo di Santa Monica, anzi, c’è più di un motivo per cui meriterebbe di essere il gioco dell’anno più del capolavoro di Rockstar Games (ne abbiamo parlato nella parte iniziale di questo articolo).
Abbiamo approfondito il successo di God of War a The Game Awards 2018, e ora chiudiamo l’articolo parlando dei difetti di questo gioco, che è talmente ben strutturato da averne pochi, al punto di potersi riassumere in un’unica grande pecca.
Questo nuovo capitolo di God of War non è un open world e non doveva esserlo, paradossalmente però, potrebbe essere proprio questo il grosso “difetto”.
Precisiamo: la struttura sandbox di God of War non ha niente che non va, ma il mondo di gioco da l’impressione di essere più ampio di quanto non lo sia realmente. In particolar modo, una scelta presente nella mappa dei regni crea inevitabilmente un fortissimo desiderio di volerne di più, così come determinate missioni secondarie (non serve che vi anticipi nulla, capirete benissimo a quali mi riferisco non appena le giocherete).
Questo desiderio di volerne di più lo si ha in particolare nelle boss fight, che in questo nuovo God of War peccano un po’ di spettacolarità, pur essendo anch’esse più tecniche rispetto ai capitoli passati. Oltre a non essere molto numerose, escludendo i mid boss, c’è solo una boss fight con la spettacolarità tipica della saga, e altre due che sono si spettacolari ma non ai livelli del passato.
God of War è chiaramente strutturato come il primo capitolo di un nuovo corso, il che potrebbe far tornare alla mente il numero risicato di boss fight nel primo God of War, o anche la qualità di alcune boss fight di God of War II. Tuttavia, non si possono ignorare i progressi fatti da God of War III sotto questo profilo, pertanto non regge la scusa del capostipite di una probabile nuova trilogia.