Influencer e videogiochi: il Florence Game Festival ha “spostato la fonte”?

Dei tanti eventi fieristici che, in un modo o nell’altro, gravitano attorno al mondo dei videogiochi, il Florence Game Festival – tenutosi l’ultimo weekend di marzo nel capoluogo toscano – rappresenta senz’altro una novità. Realizzato grazie allo sforzo congiunto di realtà quali Popspace, SiCrea e l’agenzia di creativi Smile, il festival è stato più volte definito dal noto streamer Dario Moccia – una delle menti alla base del progetto – come un’occasione per riscoprire la passione per il videogioco, ponendosi in contrasto con la tendenza tipica delle altre manifestazioni, ridotte ormai a vetrine per influencer utili solo ad attrarre pubblico pagante.
Dunque siamo di fronte a una rivoluzione? Stiamo “spostando la fonte” – per usare un meme nato in una maratona di Dario – dagli influencer che parlano di videogiochi al videogioco in quanto medium, oggetto di una sincera passione condivisa? È sicuramente presto per dirlo, ma possiamo mettere giù alcuni punti.
Un festival su misura
Iniziamo col dire che, dal punto di vista dell’allestimento, il festival fiorentino non si è discostato poi molto da fiere ormai istituzionali come Lucca Comics o Milan Games Week. Postazioni da gioco concesse da Nintendo accoglievano il pubblico all’ingresso, un notevole arcade museum dove poter recuperare vecchie glorie alla stregua di After Burner si estendeva sul lato destro dello stabilimento, mentre dall’altro lato si potevano trovare uno spazio – ahimè troppo esiguo – dedicato agli indie, uno per la VR, un altro ancora per i racing game, ecc. Gli elementi tipici della ricetta c’erano più o meno tutti. Eppure, paragonare questa rassegna ai soliti noti del panorama fieristico sarebbe un errore.
Già i locali insolitamente poco “riempiti” della Stazione Leopolda – luogo designato per la kermesse – contribuivano a creare un’atmosfera diversa, più rilassata: camminare in quello spazio, iconicamente in bilico tra antico e moderno, trasmetteva una sensazione piacevolmente lontana dal forsennato accalcarsi fra teste sudate, zaini e braccia sbraitanti che caratterizza l’esperienza concreta di ogni altra fiera. Una scelta estetica certo in parte obbligata dalla carenza di grandi sponsor e dall’affluenza tutto sommato discreta a cui è inevitabile che un evento appena nato si esponga, ma se quel che conta è l’impatto sul pubblico, credo di poter dire che questo setting abbia avuto un effetto positivo, agevolando l’interazione tra i partecipanti.

Congeniale, in questo, anche la disposizione dei palchi, con due stage paralleli separati dal muro della vecchia stazione ferroviaria, posti in fondo ai due capannoni che costituivano l’intera area della manifestazione. Circoscritto alla verticalità di questi due grandi “corridoi” che portavano all’attrazione principale, con le attività secondarie comodamente lasciate ai bordi della struttura, lo spazio del festival rifiutava la deriva caotica dei grandi eventi celebrativi ed il bombardamento di stimoli cui spesso optano con l’installazione di vari stand un po’ dappertutto, nella speranza di continuare a solleticare una curiosità messa a dura a prova dal frastuono circostante.
Il risultato era un ambiente dal sapore quasi domestico, in cui muoversi liberamente, senza intoppi, o prendersi il lusso di fare due chiacchiere con qualcuno per ingannare l’attesa. Per quanto possa sembrare assurdo doverlo specificare, al Florence Game Festival era possibile fermarsi a fare conversazione, discutere con altri partecipanti, conoscersi; tutte cose semplicemente fuori luogo in un qualunque altro contesto che si proponga di celebrare la “community” dei videogiocatori, e che finisce puntualmente col sedarne (per pochissimo) l’ossessione consumistica con la rivendita a prezzi improbabili di certo merchandise pacchiano o un indiscriminato ricorso ai meet & greet con youtuber e streamer.
Ospiti in primo piano
Con la sua struttura a panel che si susseguivano quasi ad ogni ora, il Florence Game Festival è stato anzitutto un evento di interviste con ospiti (perlopiù) internazionali. Un momento di raccordo e di racconto, che ha messo in evidenza menti creative e brillanti maestranze dell’industria videoludica, senza mai risultare banale nonostante un – immagino necessario – “riciclo” degli ospiti, che sono stati intervistati più volte nei due giorni di festival.
Si è trattato, insomma, di una sorta di conferenza continua, volta principalmente a chi volesse scoprire il videogioco da una prospettiva che non esiterei a definire inconsueta considerando quanto, nella comunicazione quotidiana messa in campo dalla stessa industry, certi aspetti legati alla dimensione più “intima” del processo creativo di un’opera rimangono schiacciati dal marketing, che continua a soffiare su una cultura dell’hype mai necessaria (innescando quella FOMO che ormai pare l’unico modo possibile di partecipare al dibattito videoludico, qualunque cosa esso sia).
Un roster, quello degli ospiti, peraltro di tutto rispetto, in cui spiccavano i nomi di Tina Nawrocki, animatrice 2D di Cuphead; Glen Schofield, padre del cult Dead Space; l’italiano Matteo Bassini, già illustratore per Magic: The Gathering che ha lavorato con Moon Studios a Ori and the Blind Forest e No Rest for the Wicked; e persino Kenji Watanabe, il principale disegnatore dei Digimon. Fatta eccezione per Ron Perlman, che ha avuto sul palco un’appassionata conversazione con Federico Frusciante, non è difficile notare il fil rouge che lega ogni ospite. Del resto, da un festival a lungo propagandato da Dario Moccia, che di animazione parla parecchio, non ci si poteva aspettare altro se non una ribalta della compagine artistica, del mondo videoludico e non.

Senza voler sminuire il ruolo, ovviamente centrale, di altre figure, è evidente che l’obiettivo del Florence Game Festival fosse quello di riunire sotto un’unica bandiera i creativi per antonomasia, le figure cioè deputate alla realizzazione di tutti quegli aspetti che comunemente ascriviamo alla direzione artistica. Che si trattasse di character designer, illustratrici, art director o concept artist, dalle interviste con questi personaggi – indiscussi veterani alcuni, autentici underdog altri – sono emersi aneddoti e riflessioni sul ruolo della creatività e dell’ispirazione; storie di riscatto personale dal sapore squisitamente umano; racconti sulla necessaria ostinazione delle proprie idee contro un sistema industriale che ostracizza qualsiasi progetto non conforme ai propri standard, come ha illustrato la bellissima intervista a Billy Basso e Dan Adelman, rispettivamente creatore e produttore di Animal Well.
In un simile contesto non sono mancati cenni al tema dell’intelligenza artificiale nel campo dell’arte, considerando oltretutto i recentissimi avvenimenti che hanno coinvolto il leggendario Studio Ghibli. Domande sul ruolo e la problematicità di questi nuovi tool nell’ambito artistico sono state poste a diversi ospiti, i quali hanno restituito visioni anche divergenti. Un momento indubbiamente costruttivo, anche se forse da questo punto di vista il festival ha mostrato il suo limite intrinseco, quello cioè di non creare un vero e proprio dialogo tra le idee, accontentandosi di metterle in mostra. D’altro canto, l’aver visto ragazze e ragazzi armati di taccuino che prendevano appunti durante le interviste è una rarità che credo possa valere a pieno risarcimento, oltre a essere una bellissima immagine che racchiude l’esperienza nel suo insieme.
…e gli influencer?
Come sappiamo, l’avvento del digitale e la nascita di figure come i content creators ha portato a una sorta di “smaterializzazione” del videogioco e la sua conseguente scomparsa dagli eventi che, almeno nominalmente, lo riguardano. Il Florence Game Festival non ha certo rinunciato al potere attrattivo dei volti noti del web 2.0, anzi: già da dicembre Dario Moccia – durante la maratona di beneficenza per Telethon – si è messo a parlare del progetto di fronte al suo vastissimo pubblico. E benché la presenza sua e dei suoi colleghi fosse scontata, il fatto che non rappresentasse l’elemento principale di tutto quello che il festival aveva da offrire è forse la novità più importante.
Goliardicamente ribattezzati “NPC” (in onore dei personaggi non giocanti dei mondi videoludici), gli influencer invitati – tra cui Kurolily, Save a Gamer, Pow3r, Matteo Corradini dei The Pills e tanti altri – hanno avuto sì un ruolo fondamentale, ma mai protagonistico, quanto piuttosto manifestamente strumentale. Loro principale compito era infatti quello di condurre le interviste (peraltro magistralmente tradotte da ottimi interpreti) e di presentare di volta in volta il nuovo panel. Niente più che dei semplici host, insomma, preposti al corretto svolgimento di una celebrazione che rimaneva sempre e soltanto incentrata sulle maestranze di cui parlavo prima.

È chiaro che almeno una parte di pubblico fosse lì unicamente per vedere i propri creators preferiti, sperando magari di strappargli un selfie e parlarci per una manciata di minuti. Se tutto questo era possibile, però, lo si deve alla scelta, molto saggia, di non relegare gli NPC in un’area apposita e di fare in modo che potessero mischiarsi in mezzo agli altri muovendosi liberamente per la Leopolda, eliminando così – per quanto possibile – la distanza tra pubblico e influencer. Non più idoli virtuali da venerare (o sconfessare) nel perenne soliloquio delle chat online, ma spettatori di un unico grande spettacolo che coinvolgeva tutti quanti.
Che un festival in parte ideato e pubblicizzato da un noto personaggio del web – un “intrattenitore dell’Internet”, come ama definirsi lo stesso Dario – sia il primo a togliere protagonismo agli influencer fa ben sperare sulla possibilità di vedere, in futuro, eventi capaci di affrancarsi dal fanatismo e dall’idolatria a buon mercato. Certo, questa era pur sempre la puntata pilota; difficile dire se il Florence Game Festival sia riuscito a “spostare la fonte”, ma in attesa di una seconda edizione, qualche speranza che le carte in tavola possano cambiare forse ce l’abbiamo.
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