Il ruolo del gaming su mobile

Recente, ma di certo non inattesa, è la notizia secondo cui il mercato del gaming abbia un valore in denaro superiore a quello di musica e cinema messi insieme. Lo riporta Will con un post su Instagram, inquadrando lo scenario di fine 2019 dove l’industria videoludica aveva raggiunto un peso pari a 146 miliardi di dollari – un dato destinato a crescere da lì a breve viste le ovvie conseguenze dell’ingerenza pandemica.
Che il mondo dei videogiochi vantasse un giro d’affari interno di tali proporzioni, in fondo, non è mai stato un mistero per gli osservatori più attenti – e d’altronde i costi di produzione di un titolo tripla A non di rado superano quelli di un blockbuster hollywoodiano. A colpire maggiormente è però la tripartizione della colonna relativa all’industria del gaming. Benché non siano riportati i valori percentuali, dal post di Will è possibile farsi un’idea della misura in cui il mercato dei videogiochi sia a sua volta suddiviso in tre grandi categorie: PC, console e mobile. Quest’ultima in particolare rappresenta quasi la metà dell’ammontare complessivo: una quota senza la quale il paragone con il mercato della musica e del cinema devolverebbe in una situazione di quasi parità.
La ragione di questo trionfo economico senza precedenti è dunque da ricercarsi nel ruolo che i titoli per mobile hanno rivestito nell’industry, conseguendo un successo che rischia di ottenebrare la cornice interpretativa del fenomeno nella sua complessità, le cui implicazioni non riguardano solamente il mercato mobile, ma il panorama videoludico tout court.
Il videogioco nella cultura di massa
Se una lettura più superficiale poteva dunque suggerire che il videogioco si fosse finalmente affermato in quanto forma di intrattenimento mainstream, emancipandosi dall’imbarazzo culturale che lo ha reso appannaggio dei soli geek per interi decenni, una tale dicotomia lascia intendere che le cose non siano cambiate poi molto, al netto di una comunque più che visibile diffusione generale del gaming. Lungi da qualsiasi pretesa elitista, per decifrare correttamente la panoramica prospettata occorre collocare con precisione i prodotti per mobile, il cui appeal non risponde tanto alle caratteristiche specifiche del medium in sé, quanto a una parzializzazione delle sue potenzialità espressive.
A onor del vero bisogna pur dire che nel panorama mobile non mancano porting da altre piattaforme, ed alcuni esempi sono PUBG, Call of Duty, Fortnite, Minecraft, Among Us e Genshin Impact (anche se in questo caso si tratta di un prodotto concepito in origine per mobile e approdato simultaneamente anche su console); oppure ancora MOBA di un certo spessore come League of Legends: Wild Rift. Tuttavia, tra i maggiori campioni di incassi si possono facilmente trovare videogiochi fisiologicamente – e filosoficamente – ben diversi dal tipo di esperienze interattive a cui è abituato chi solitamente gioca su console o PC.

In questi ultimi anni, in particolare, l’evoluzione di alcuni titoli mobile only ha descritto curve di crescita da capogiro, il cui peso economico costituisce per gli investitori ben più di un buon incentivo a muoversi in questo settore. Candy Crush Saga e Coin Master sono due esempi eclatanti: due titoli dal design semplice e intuitivo, con un replay value praticamente infinito e capaci di far presa con enorme facilità anche su chi videogiocatore non si è mai definito – un fattore, questo, determinante per spiegare la crescita sempre più massiccia dell’utenza.
Da improvvisati scacciapensieri virtuali come potevano essere i primissimi, timidi esempi di giochi per mobile, le più moderne app di videogiochi costituiscono un vero e proprio canone ludico a sé stante, spesso e volentieri assimilabile al modello del game as a service. Questo non comporta in sé e per sé un abbassamento della qualità dell’offerta ludica, beninteso; Pokémon Go, ad esempio, ha introdotto un’idea di gameplay particolarmente audace sfruttando a pieno la natura portatile del mobile e unendo così praticità e senso di sfida.

Resta però l’insindacabile verità di un’industria il cui prodotto più redditizio non è rappresentativo di quel che realmente ha da offrire: i giochi per mobile – non a caso spesso descritti come amateur friendly – hanno irregimentato un approccio al game design che squalifica la complessità (narrativa e interattiva) in favore di un utilizzo meramente riempitivo. E mentre la soglia di attenzione si abbassa e sembrerebbe che sempre meno utenti completino i titoli single player, sui dispositivi mobile avviene l’esatto opposto: le statistiche di utilizzo delle app vertono sempre su quantità spropositate. Questo perché il mobile garantisce un tipo di fruizione dilazionabile, un passatempo agile per i momenti vuoti delle routine che ci si porta appresso, dalle trasferte pendolari alla pausa caffè in ufficio.
E il cloud gaming?
Con le possibilità offerte dalla continua evoluzione tecnologica ci si potrebbe chiedere come mai il cloud gaming non affianchi quello su mobile, appianando così le differenze che intercorrono tra le diverse piattaforme. Ad esempio, disponendo di un servizio ad abbonamento per lo streaming di videogiochi come PlayStation Now, Sony potrebbe esportare, seppur con delle ovvie riserve, il proprio parco titoli sui dispositivi mobile, offrendo anche agli utenti più casual uno scorcio sulle proposte di alto profilo.
Tuttavia, oltre alla mancanza di un’adeguata copertura in termini di infrastrutture (che comunque riceverebbe uno slancio significativo con l’estensione della rete 5G) e all’esigenza di avere controller compatibili, lo scoglio principale contro cui si arresta la diffusione del cloud gaming sui dispositivi mobile è rappresentato dalle strategie di controllo di Apple, che fino ad ora ha permesso solo a Microsoft di avere uno spazio per il proprio servizio – ancora in beta – xCloud sull’App Store (e non senza fatica). Come spiega esaustivamente Matthew Ball nel suo articolo Apple, Its Control Over the iPhone, and The Internet, il gigante di Cupertino – che detiene una quota eufemisticamente considerevole del mercato smartphone – ha da sempre adottato una politica di pervicace protezionismo atta a limitare l’accesso al sistema iOS.

Nella fattispecie, con il pretesto di voler tutelare la sicurezza dei propri utenti ed evitare malfunzionamenti di app, Apple non solo vincola l’accesso ai driver nativi di iOS alla sottoscrizione delle proprie politiche di fatturazione, ma impedisce la presenza sul suo store di altre piattaforme, come appunto PlayStation Now, ma anche Stadia di Google (che resta fruibile via browser: un’esperienza decisamente meno comoda vista la mancanza di ottimizzazione) e Luna di Amazon – adducendo come giustificazione l’impossibilità di verificare che tutti i prodotti venduti all’interno di un eventuale catalogo di terze parti rispettino i termini di servizio. Una scelta che non stupisce affatto se si considera che il 75% delle entrate di App Store proviene proprio dai giochi mobile e che il colosso californiano ha tutto l’interesse a voler tutelare in primis le sue principali fonti di introiti.
In uno scenario dove il mercato mobile è dunque soggetto alle limitazioni del suo più influente player va da sé che l’espansione del cloud gaming non può che rimanere prerogativa di altri settori; esistono sì smartphone adibiti per il gaming, come il ROG Phone di ASUS, ma si tratta pur sempre di prodotti specifici che ricadono nella stessa particolarizzazione delle nicchie di appassionati e che pertanto non concorrono a fornire una valida alternativa a quanto si possa trovare negli store più trafficati.
Uno sguardo al futuro
Il paradosso appare dunque evidente: da una parte l’industria del gaming si costituisce di produzioni complesse, economicamente esorbitanti e che non di rado mettono alla prova la pazienza degli utenti; dall’altra, forme di intrattenimento scevre da particolari velleità – i cui costi di produzione sono sensibilmente più bassi – garantiscono un’affluenza tale da portare il bilancio complessivo (e l’interesse degli investitori) in favore di quest’ultime. Che questo possa avere delle conseguenze sul futuro dell’industria è plausibile, e non deve stupire che, a fronte di modelli di business via via sempre meno sostenibili, noti publisher come Ubisoft si stiano già muovendo verso nuovi sistemi di monetizzazione per i propri prodotti.
A margine di un passaggio più netto e strutturato al modello game as a service di certe IP – come del resto preannuncia il futuro di Assassin’s Creed – non è da escludere che facciano la comparsa anche soluzioni lucrative differenti; a ben vedere, il panorama videoludico vanta già un discreto novero di precedenti storici. In primo luogo potrebbe essere preso in considerazione l’inserimento di pubblicità, un escamotage già adoperato da Death Stranding in cui il protagonista Sam Porter Bridges era solito rifocillarsi con le bevande energetiche Monster, o dal più recente Far Cry 6, dove può essere reperito un orologio Hamilton.

L’altra grande opportunità che hanno le software house per rinverdire i propri conti è certamente quella dei lootbox. Benché siano ostracizzati da buona parte delle community, i sistemi di questo tipo – paragonabili ad una sorta di lotteria virtuale in cui, previo pagamento, è possibile ottenere item di varie natura – sono la principale fonte di guadagno dei titoli mobile free to play, specialmente dei cosiddetti gacha come Genshin Impact. E pensare che una meccanica come questa sia del tutto incompatibile con le produzioni più tipicamente in linea con gli standard del console gaming è decisamente fuoriluogo.
In questo senso è infatti paradigmatico il caso di Fifa, la nota serie calcistica di Electronic Arts, che con il suo Ultimate Team ha imbastito un sistema pay to win in grado di generare guadagni pari a 1,62 miliardi di dollari nel 2021: il 29% delle entrate totali dell’azienda. Considerando poi le continue fluttuazioni dei costi di produzione dei videogiochi AAA, le storture dell’industria del gaming appaiono più che evidenti, anche in rapporto al suo incredibile giro d’affari che sembra qualificarne la supremazia indiscussa nel campo dell’intrattenimento mainstream, laddove rivela invece un sostrato critico che forse necessita anche di un cambio di rotta.