L’Italia di Zaha Hadid, al MAXXI (disegnato da Zaha Hadid)
In mostra dal 23 giugno 2017 – 14 gennaio 2018
Roma, fine anni ’80, Facoltà di Ingegneria, aula di disegno tecnico: sul bordo superiore della lunga lavagna semi cancellata troneggia una scritta beffarda “ARCHITETTO CHI LEGGE”.
Rome, fine anni ’10, Museo delle Arti del Ventunesimo Secolo (per gli amici solo il MAXXI, disegnato da Zaha Hadid): nell’atrio luminoso s’allungano sinuose le scale che portano alle gallerie superiori, su una parete campeggia il nome della creatrice di questo spazio coreografico, avvolgente: Zaha Hadid.
Dame Zaha Hadid nasce a Baghdad, nel 1950, si è laureata in matematica a Beirut e architettura a Londra. Ha fondato il suo studio nel 1980 a Londra, insegnato ad Harvard, alla University of Illinois ed alla Architectural Association.
Ripetutamente premiata (premio Pritzker di Architettura nel 2008, Premio Stirling nel 2010 – proprio per il progetto del MAXXI – e nel 2011), riconosciuta a livello internazionale tra “the 50 most influential people” (“Time”, 2010; “The New Statesman”, 2010) piuttosto che tra le 100 donne più potenti al mondo (“Forbes”, 2008), è scomparsa circa un anno fa a Miami, ma ha lasciato un segno (letteralmente) indelebile nell’architettura moderna. Fin qui i compiti a casa (Wikipedia docet).
Quanto alla mostra, ospitata con sobrietà e discrezione nella quinta galleria del Museo, “L’Italia di Zaha Hadid” raccoglie una collezione, o piuttosto una selezione dei suoi progetti, inevitabilmente non esaustiva, e forse nemmeno rappresentativa (vista la mole di progetti sviluppati e/o realizzati dal suo studio – di ben 254 architetti dipendenti), ma senza dubbio evocativa. L’allestimeno è semplice, non celebrativo, ma a suo modo immersivo, coinvolgente. Sono esposti bozzetti e maquette dei progetti, foto (rigorosamente in b/n), oggetti di design, sperimentazioni innovative in cui è tra l’altro evidente la fascinazione per la matematica (eredità dei suoi primi studi) come strumento generativo di forme nuove.
La mostra lascia sensazioni molto particolari: pur trattandosi evidentemente di un teaser, di un assaggio di quella che è stata la sterminata produzione concettuale e architettonica dello Studio Zaha Hadid, si colgono fortemente alcune dominanti del lavoro dello Studio negli anni, sia in Italia che nel Mondo.
Il tratto più evidente è la tensione a (e la capacità di) disegnare lo spazio, per così dire solcando il vuoto: gli edifici marcata Zaha Hadid non sono semplicemente geometrie fisiche, sembrano nascere non per delimitare lo spazio (ad esempio tra un ‘dentro’ ed un ‘fuori’) quanto per avvolgerlo e disegnarlo.
I progetti esposti sembrano molto ambiziosi ed energici: nel proporre forme e geometrie diverse, spesso non euclidee, a volte sinuose, a volte globulari, quasi biologiche, come nel rifiutare le forme e le proporzioni rettilinee, squadrate o nette, contraddette nella loro verticalità e orizzontalità.
Non possiamo – evidentemente – giudicarne la funzionalità, la fruibilità. A volte, ci sembra, gli interni di queste ‘creature’ sembrano inquietanti, sconcertanti, volumi e spazi d’uso sembrano obbligarci a ripensare il nostro muoverci e vivere lo spazio.
Nei progetti e nelle realizzazioni più ampie, gli edifici diventano poi l’epicentro, il nucleo fondante di veri e propri paesaggi a se stanti, innestati in un contesto che ne rimane distinto: perciò nella Stazione di Napoli Afragola (opera in corso di realizzazione) il passante ferroviario si immerge nella struttura che lo avvolge, evocativa d’un treno sinuoso, che diventa un segno unico con il tracciato ferroviario, mentre i padiglioni curvilinei del Centro culturale Heydar Aliyev (Baku, Azerbaigian, prima inaugurazione nel 2012) evocano le forme raccolte e semi fuse d’una misteriosa conchiglia aliena.
Scriveva Bruno Zevi(1) che la percezione dell’architettura per sua natura non è narrabile con gli strumenti pur nobili ma bidimensionali del disegno (o della fotografia), né con i modelli in scala di edifici e palazzi, perché essenziale è la possibilità di percepirne i volumi tridimensionalmente, e capirne gli spazi muovendosi dentro o intorno ad essi.
E l’unico limite, davvero incolmabile, di questa piccola ma suggestiva esposizione, è proprio nella nostalgia che essa suggerisce (ed è perciò un “teaser”, come scrivevamo in incipit) di queste forme e questi volumi, e del loro collocarsi nei rispettivi contesti, nel desiderio di poterli vedere, attraversare e magari vivere, di persona.
Da vedere, anche per apprezzare il contesto stesso del MAXXI di Zaha Hadid “dal vivo”
- Bruno Zevi “Saper vedere l’architettura”, Einaudi 1948