Il futuro della Filosofia, tra cancel culture e IA. Intervista ad Antonio Di Chiro
Antonio Di Chiro è studioso e docente di Filosofia, diviso tra mondo accademico e scolastico, nutre e vive una grande passione per la natura. Nella sua ultima opera Il grano cresce di notte. Vita e pensiero di Henry D. Thoreau, ha tracciato una biografia filosofica del pensatore americano. Da questa siamo partiti per chiacchierare di cancel culture, intelligenza artificiale e il futuro ruolo della filosofia.
Bentrovato professore Di Chiro, innanzitutto volevamo chiederle perché ha scelto di dedicare uno studio di così ampio respiro sulla figura di Henry David Thoreau?
A un certo punto della mia vita ho avvertito l’esigenza di disancorarmi da un mondo che mi sembrava chiuso e asfittico e di mettermi in cammino senza una direzione precisa: ho preso lo zaino e mi sono messo a esplorare posti sperduti, portando con me una copia del Walden di Thoreau. Purtroppo, a un certo punto, non ho potuto più camminare per via di una brutta tendinite. Ho continuato lo stesso ad andare in giro e ho portato con me i Diari di Thoreau. Poi, ho scoperto un libro di Michael Sims, una biografia piuttosto romanzata e perlopiù incompleta sul filosofo americano. Da qui è nata l’esigenza di provare a raccontare la vita di Thoreau e, nel fare questo, anche l’esigenza di disancorarmi da un certo modo accademico di fare filosofia. Volevo scrivere un testo senza l’assillo e il retaggio delle note. Volevo far parlare i testi di Thoreau. Il tentativo è stato quello di restituire l’autore al suo tempo, perché vi sono troppi testi che hanno banalizzato oltremodo il pensiero del filosofo di Concord. Thoreau non è un profeta, non ha predetto nulla e non possiamo analizzare gli avvenimenti contemporanei alla luce del suo pensiero. È vero pure che lui stesso ha contribuito a creare un’immagine molto forte di sé, plasmando la sua leggenda. Il rischio era ed è, quello di limitare la vita di Thoreau solo alle sue vicende biografiche, quale il soggiorno nella capanna sul lago di Walden o, ad esempio, all’episodio della disobbedienza civile. Thoreau però è ben altro. Studia a Harvard, conosce il greco, il latino, il tedesco, conosce i testi sacri, la filosofia orientale. Inoltre, non bisogna dimenticare che Thoreau è figlio del trascendentalismo americano: in Europa, più precisamente in Germania, avevamo le ultime propaggini dell’idealismo tedesco; negli Stati Uniti, invece, si sviluppava una filosofia nuova basata sul contatto con la natura. Thoreau contribuisce a fondare questa corrente insieme a Emerson da cui poi si distacca. V’è, infatti, un rapporto di amore e odio tra i due che ho provato a ricostruire. Emerson teorizza la Natura, invece Thoreau la vive; non è per nulla una contrapposizione banale. Mi viene in mente Michel Onfray che definisce Emerson, in chiave ironica, un “filosofo da salotto”.
Per Thoreau, l’unico modo per alleviare il disagio del vivere civile è immergersi nella natura. “Andai nei boschi per affrontare i fatti essenziali della vita” è un passaggio bellissimo che poi torna, in qualche modo, anche in John Muir che possiamo di certo definire un continuatore del pensiero di Thoreau. Questi sono stati i principali motivi che mi hanno spinto a iniziare lo studio del filosofo di Concord.
La sua “biografia filosofica” attraversa la vita del pensatore di Concord aiutando molto a comprendere come spesso il pensiero di un autore venga travisato e, sotto certi aspetti – penso a Thoreau paladino dell’ecologia – “commercializzato”. Quanto è importante, secondo lei, restituire un autore al proprio tempo storico e perché proprio Thoreau?
Penso alla situazione da cui nasce il pamphlet Disobbedienza civile, il testo più celebre e diffuso di Thoreau, che è del tutto casuale e rocambolesca: mentre il filosofo torna a Concord per far riparare la suola di una scarpa s’imbatte nell’esattore delle tasse ed è arrestato perché si rifiuta di pagare una tassa imposta dallo Stato del Massachusetts. Resta una notte in cella e poi esce, grazie a una zia che paga la sua cauzione. Da qui prende inizio il mito del Thoreau della “disobbedienza”. In verità io penso che il capolavoro di Thoreau sia l’Apologia per John Brown, insieme a Waldenovviamente. Nell’Apologia Thoreau abbandona la disobbedienza civile e pacifica a favore della violenza e dell’utilizzo delle armi; immaginiamo ora questo Thoreau estrapolato dal proprio momento storico e inserito in un contesto come quello americano attuale dominato dalla cultura delle armi: sarebbe un disastro! Ho fatto questo esempio per dimostrare come quest’autore sia sovente manipolato e tradito, usato come un passe-partout universale, operazione volgarissima e imbarazzante che accade sempre più spesso. Purtroppo abbiamo a che fare con un filosofo più citato che letto e che è diventato una sorta di guru e di feticcio della wilderness.
Ricollegandoci alla contestualizzazione di un personaggio storico al proprio periodo, c’è chi ritiene, nell’ambito della cancel culture, che è lecito operare una sorta di moderna damnatio memoriae nei confronti di coloro che non rispecchiano i criteri morali attuali. Qual è la sua posizione in merito?
La questione della cancel culture è un problema che è avvertito soprattutto negli Stati Uniti e che, con derive maldestre e imbarazzanti si è sviluppato anche nel dibattito culturale e politico europeo. Purtroppo, negli Stati Uniti, tale questione si è imposta in maniera rude e aggressiva ed è sovente associata al politically correct, creando un coacervo fatto di confusione e censure, un pastiche di condanne e sanzioni che credono, in maniera fanatica e nevrotica, di ristabilire un “corretto ordine” della storia e delle cose umane. Penso che, filosoficamente, tale questione derivi dal problema del rapporto tra identità e alterità. L’impostazione di fondo consiste nel tentativo di tutelare e riconoscere le differenze, cancellando tutto quello che offende le diversità. In realtà, questo tentativo sortisce l’effetto contrario, ovvero quello di proteggere e difendere una presunta identità, azzerando, a ritroso, tutte le differenze. Questo sforzo crea stereotipi e pregiudizi che, lungi dal risolvere il problema, allontanano da un’effettiva e reale comprensione dell’identità. Si tende a credere che l’identità è tale quando è depurata da ogni differenza, mentre in realtà si dovrebbe capire che l’identità è tale solo – basti pensare all’inizio del pensiero occidentale, al Parmenide di Platone – in relazione alla diversità e quindi l’altro non è colui che mette in crisi il mio mondo e i miei valori, ma colui che contribuisce ad arricchire il mio mondo e i miei valori. In questo modo si allontana l’idea, nefanda e nefasta, dello scontro di civiltà e questo contribuisce a mettere in crisi la presunzione identitaria del soggetto che riduce a sé il mondo, la propria lingua, la propria civiltà, la propria cultura, pensando che siano superiori a quelle di altre lingue, civiltà e culture. Mi viene in mente Bernhard Waldenfels che, in Fenomenologia dell’estraneo, cita Arthur Rimbaud dicendo che “io è un altro”.
Lei insegna filosofia nei Licei, nonostante per anni si sia detto che le lauree del settore umanistico non avrebbero avuto vita facile nel mondo del lavoro, oggi vediamo quanto questa previsione sia stata erronea, con un mercato che richiede laureati in Filosofia nei settori più disparati. Qual è, secondo lei, il futuro dell’insegnamento di questa disciplina?
L’università degli ultimi decenni è sempre più asfittica; un’università ormai smantellata per le logiche di mercato. I corsi accademici si lasciano attrarre dalle lusinghe del mondo economico e imprenditoriale. Purtroppo questo riguarda anche il mondo scolastico: basti pensare agli attuali percorsi trasversali di fine studio, e nello specifico a quell’abominio che si chiamava “Alternanza Scuola Lavoro”, in cui si tenta di avvicinare in maniera, goffa e al tempo stessa tragica, i ragazzi al mondo del lavoro. Negli ultimi anni si assiste sempre di più al fatto che bisogna, essere sempre veloci, funzionali, tutto deve essere smart e piegato alle dinamiche di mercato. Tutto diviene fruibile, spendibile e pronto per essere rivenduto. Gli studenti stessi, ormai, sono intesi sempre di più come se fossero consumatori. In questa folle corsa verso la logica del mercato, si trascura il percorso di crescita degli studenti. Non dimentichiamo che, durante e dopo il Covid, molti ragazzi hanno iniziato a soffrire di disturbi d’ansia. In questo caso, mi viene in mente, da un lato, Bernard Stiegler, filosofo molto interessante, che parla dell’uso selvaggio di quella che lui chiama la psicotecnologia che influisce in negativo sull’apprendimento degli studenti; dall’altro lato, penso a quel filosofo che è una miniera di spunti e stimoli per comprendere la tarda modernità, ovvero Mark Fisher, morto nel 2017, primo a parlare di realismo capitalista. A proposito dei suoi studenti utilizza un termine molto duro: «edonia depressa», ovvero una situazione in cui gli studenti hanno una soglia d’attenzione minima, caratterizzata da un’estrema incapacità di concentrarsi. Penso, detto in maniera estremamente diretta, che insegnare filosofia a scuola, sia una forma di resistenza culturale, l’ultimo argine contro l’avanzare dell’analfabetismo funzionale ed emotivo e della barbarie concettuale.
Il mondo dell’IA fagocita sempre più la realtà, forse, in maniera tanto veloce da non permetterci di comprendere cosa realmente stia accadendo. Essendo lei specializzato in Filosofia morale, come vede questa corsa al perfezionamento delle intelligenze artificiali?
Il problema secondo me è che non si tratta di essere contro o a favore, si tratta di vedere i pro e i contro dell’intelligenza artificiale, non a caso le polemiche sull’IA, sono nate in Italia, a mio avviso, sul retaggio dei filosofi teoretici, lo dico con estrema franchezza. Heidegger dice “la scienza non pensa”, questo passaggio, tornando a ciò di cui parlavamo prima, estrapolato dal suo contesto è finito per diventare un mantra negativo. Ma già negli anni Trenta c’era il dibattito sull’intelligenza artificiale debole e forte; Heidegger addirittura parla di cibernetica ipotizzando che a un certo punto avrebbe soppiantato la filosofia. Ora noi sappiamo che la cibernetica è essenzialmente la tecnica; ci ritroviamo quindi di fronte a un vecchio dilemma.
L’intelligenza artificiale non conosce i meccanismi di abduzione e deduzione propri dell’intelligenza umana e tra coloro che ho potuto sentire in merito credo si debba partire dalla posizione di Luciano Floridi che ha parlato di una nuova rivoluzione digitale dell’onlife. Provo comunque a dare la mia visione da docente: l’intelligenza artificiale non ha la metaforicità propria dell’essere umano e tantomeno la metaforicità del linguaggio umano, questo lo sottolineava trent’anni fa Tullio de Mauro in un libello, Capire le parole, a proposito del rapporto tra informatica e linguistica. Trattandosi di una oggettività non-umana, salva la questione della responsabilità, se un algoritmo, un sistema artificiale che decide opera contro un’entita, chi è responsabile? Salta la questione dell’imputabilità. Per ultimo viene il problema dell’utilizzo didattico, e qui torno a Fisher e Stiegler dei quali condivido la posizione. Facciamo un esempio pratico, lo vediamo a scuola con l’uso di ChatGPT da parte dei ragazzi, si è diffuso un nuovo problema. Dobbiamo ancora capire quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi. Al momento, dunque, ben venga qualsiasi dibattito, serio e rigoroso, sull’intelligenza artificiale.