Christian Boltanski. Si spegne la memoria dell’arte

Il 14 luglio, giorno di commemorazione della presa della Bastiglia, una notizia ha funestato Parigi: la città ha perso uno dei suoi importanti vessilli.
Si è spento a Parigi l’artista Christian Boltanski
Nato nel 1944 da padre, medico ebreo di origini ucraine, di cui ha conservato il cognome e la memoria storica nelle sue opere, e madre corsa, Christian Boltanski ha fatto parte di quella generazione di artisti rocambolescamente segnati dalle atrocità della seconda guerra mondiale, ma che hanno saputo con maestria riprodurre un mondo catartico, doloroso, in costante e inesorabile lotta tra la vita e la morte. Recentemente protagonista, nella sua Parigi, di una commovente retrospettiva al Centre Pompidou, lascia un’eredità carica di suggestioni, in cui il concetto di memoria non si limita ad una retorica solenne, insincera, riducendosi a mero e pietoso luogo comune.

Il ricordo si trasforma piuttosto in rielaborazione consapevole e profondamente sentita di un concetto universale e tangibile, che investe l’esistenza di ognuno di noi negli episodi più gravi dell’esistenza (come l’Olocausto e grandi drammi come la strage di Ustica), trovando una modalità di sopravvivenza meno dolorosa, più sopportabile.
Lavorando sulla manichea contrapposizione tra presenza e assenza, nella sue innumerevoli installazioni reiterate e perfettamente ricostruite in ogni luogo espositivo (dalle Biennali a Documenta, per non citare il numero elevatissimo di luoghi che le hanno ospitate) Boltanski si è lungamente interrogato non sulla permanenza dell’essere vivente, ma piuttosto sulla sua scomparsa. Da Chance, presentato alla Biennale del 2011, all’evocativa installazione Personnes (2010), l’artista si è posto e ha anteposto interrogativi profondi e universalmente condivisibili al puro, estetizzante, quanto vacuo attributo del memento mori.

La scelta normalizzante della fotografia come strumento della memoria
Pittore non convinto nei suoi esordi artistici, di cui non rimane traccia, scopre presto il fascino inesplicabile della fotografia, bagaglio sicuro e confortante delle sue installazioni, che nel corso dei decenni diventano veri e propri ambienti avviluppanti, organismi pulsanti e viventi dotati di esistenza propria, nei quali l’evocazione dei volti, dei corpi e delle voci risulta quasi accessoria. Una sorta di memoria invisibile, archiviata negli anfratti più reconditi delle nostre esistenze e nelle esistenze dei protagonisti, nonché negli anfratti più reconditi di scatole, classificatori, registrazioni fittizie, riproduzioni di voci tanto reali quanto immaginifiche.
Basti pensare allo straordinario lascito bolognese del Museo della Memoria di Ustica, inaugurato nel 2007, che non ostenta e non solletica il morboso “voyeurismo da strage”, ma nel quale la memoria delle ottantuno vittime viene religiosamente e rigorosamente rispettata nell’intenzionale volontà di celare in enormi container gli effetti personali ritrovati in seguito all’incidente dell’aereo precipitato nel 1980. Così come per il trattamento della memoria dell’Olocausto, che avrebbe potuto conservarsi e ridursi a ricordo puramente familiare, l’attenzione di Boltanski si sposta sull’umanità intera, intrappolata nella caducità e nell’alternanza inevitabile di vita e morte.
La comunità di defunti che l’artista riporta in vita è spesso rappresentata dalla rappresentazione dei volti attraverso il dispositivo fotografico, ma sempre più frequentemente evocata tramite gli oggetti recuperati che fanno le veci di chi li ha quotidianamente usati. Una componente emozionale e prettamente utopica pervade le sue opere, dai monumentali ricordi ai bambini scomparsi, al progetto giapponese degli “Archivi del cuore”, un autentico atlante umano realizzato grazie al contributo degli abitanti dell’isola di Teshima che hanno autorizzato la registrazione dei propri battiti del cuore.
Si consigliano le godibili letture del Boltanski autore, che nelle sue memorie familiari e fotografiche ripercorre le vicissitudini della propria famiglia, alla ricerca anche di se stesso e del senso comune dell’esistenza; nonché il commovente documentario Les vies possibles de Christian Boltanski (2009, di Heinz-Peter Schwerfel, debitore a sua volta del film realizzato nel 1968 dallo stesso Boltanski, La vie impossible de C.B.) che ripercorre, attraverso la sobria, auto derisoria e magnetica presenza dell’artista, le opere e le installazioni di un autentico e insostituibile maestro e regista della memoria.