La doppia vita di Madeleine Collins e il tema intrinseco della dualità

Questioni umane
La doppia vita di Madeleine Collins uscito nelle sale italiane il 2 giugno, è il film di Antoine Barraud che fa i conti con la dualità dell’essere umano.
Quella di cui si parla in tante opere della letteratura come Il fu Mattia Pascal di Pirandello, Il ritratto di Dorian Gray di Wilde o Sosia di Dostoevskij.
Quella coesistenza tra due componenti distinte di uno stesso nucleo: due porzioni di realtà che convivono e che spesso sono in contrasto.
Si tratta di una caratteristica insita nell’uomo ma che talvolta può creare cortocircuiti importanti se la divergenza è forte.
Perfino Pasolini era dilaniato dal suo essere sdoppiato: visionario, intellettuale fervente di giorno e acuto ma anche vizioso e dedito alle passioni carnali la notte. Molti dei suoi scritti più intimi indagano l’ambivalenza di queste sue due sfere, che noi possiamo oggi connettere e ricondurre alla sua curiosità e al suo desiderio di scendere in profondità sulle questioni umane.
La dualità può essere considerata un ostacolo ma potrebbe anche essere un elemento positivo se sfruttato nel migliore dei modi.
Si tratta di un doppio punto di vista che converge in un’unica proiezione, distorta e criptica, nell’individuo. Se nel caso di Enemy (di Denis Villeneuve) i protagonisti identici fisicamente ma diversi moralmente, hanno rinunciato ad una parte del proprio sé per un’imposizione sociale; in Fight Club (di David Fincher), invece, l’uomo moderno è vittima dell’alienazione e cerca conforto nel suo sdoppiarsi.

L’identità perduta
Ma veniamo a Madeleine.
Virginie Efira torna protagonista sul grande schermo dopo la sua straordinaria performance in Benedetta, il film provocatorio sulla religione di Verhoeven.
Nel lungometraggio di Barraud, invece, interpreta Judith, una donna che conduce una doppia vita: in Svizzera vive con Abdel, cognato di sua sorella defunta, e la piccola figlia; in Francia è la moglie del noto direttore d’orchestra Melvil, con cui ha avuto due figli.
Judith e Margot sono i nomi con cui si fa chiamare nelle diverse realtà in cui si muove, cambiando pettinatura e affetti.

Ma ciò con cui deve fare i conti è la sua identità.
Lo strumento di rappresentazione del sé verso gli altri, necessario ma modellabile a seconda delle relazioni sociali. Si tratta di un certoficato interiore che non si può falsificare, perché all’interno contiene la nostra essenza, quella che ci identifica dal resto degli individui.
Il regista ci offre la possibilità di analizzare gli effetti di una identità oggi talmente manipolabile da essere decostruita, fino ad un punto di non ritorno. Quando si diventa consapevoli di non dipendere più nè dalle strutture esterne del mondo, nè da quelle personali, ormai incapaci di reggere il peso di una vita fittizia.
Questo instabile e caduco equilibrio che Judith mantiene, fatto di menzogne e segreti, inizia a sfaldarsi, mandando in frantumi entrambe le sue realtà.
Trovandosi senza vie di uscita, la donna decide di fuggire, finendo in un vortice nichilista da cui è impossibile tornare indietro.
Un percorso che la porterà alla perdita totale del suo doppio io e alla costruzione di una nuova identità: Madeleine Collins.
Un film quasi hitchcockiano, nella sua indagine cosciente sulla violazione dell’identità, tratto intimo dell’equilibrio psicologico.
Ma anche metafora disturbante di una complessa riconoscibilità, frutto di una percezione del sé alterata e di uno sdoppiarsi dell’identità.
Un cinema che ritrova dentro lo scenario di una socialità intaccata dal virus dell’irriconoscibilità, il percorso della sua fragile protagonista vittima consapevole di un gioco rischioso che infrange i paradigmi dell’unità indivisibile.