Gli schiavi del cobalto, quando l’high-tech uccide

Viviamo continuamente immersi nella tecnologia, nell’iperconessione digitale, da dimenticare sempre più spesso che ciò che utilizziamo ha un costo, non solo in termini di acquisto ma anche di vite umane. C’è una parte del nostro pianeta dove il lavoro umano non è ancora stato soppiantato dalle macchine, pur essendo al servizio delle stesse in quanto fornisce le insostituibili e indispensabili materie prime.
Materie prime ricavate, ad esempio, dalle miniere della Repubblica Democratica del Congo (principale paese estrattore, con il 50% delle riserve mondiali), in cui a lavorare in turni massacranti, disumani e sottopagati non sono solamente adulti ma anche minori, che senza protezioni fondamentali come guanti e mascherine (per l’esposizione a polveri e gas pericolosi) faticano instancabilmente per dodici ore di lavoro per uno/due dollari, subendo a volte anche abusi fisici.
Sono molte le multinazionali che producono batterie agli ioni di litio utilizzando il cloruro di cobalto proveniente da fornitori della Repubblica Democratica del Congo, tra cui la cinese Huayou Cobalt. Ma dietro a questo commercio si apre un abisso di sfruttamento, purtroppo anche minorile. I principali produttori high-tech hanno infatti necessità costante di notevoli quantitativi di cobalto e questa urgenza viene prima di qualunque verifica, a quanto pare.
Cobalto e minori
La stima fatta dall’Unicef parla di quarantamila bambini impiegati nelle miniere: «Solo nell’ultimo anno sono morti nel Sud del Congo ottanta bambini minatori», mentre le aziende high-tech sono più impegnate a soppesare i profitti, valutati 125 miliardi di dollari annui, piuttosto che a controllare le condizioni lavorative di chi rende possibile quel fatturato.
«È paradossale che nell’era digitale alcune delle compagnie più innovative e ricche al mondo siano in grado di vendere dispositivi incredibilmente sofisticati senza dover dimostrare da dove arrivano le materie prime per le loro componenti», racconta Emmanuel Umpula, direttore esecutivo di Afrewatch.
Materie prime che, come testimonia Paul – quattordici anni, orfano, uno degli ottantasette minatori o ex minatori incontrati da Amnesty International – non hanno una provenienza pulita ma passano attraverso la vita di chi come lui, in miniera dall’età di dodici anni, ha già i polmoni a pezzi dato che passa ventiquattro ore nelle gallerie: «Arrivo presto la mattina e vado via la mattina dopo. Riposo dentro i tunnel. La mia madre adottiva voleva mandarmi a scuola, mio padre adottivo invece ha deciso di mandarmi nelle miniere di cobalto». O come François, che nelle miniere di cobalto ci lavora con il figlio tredicenne Charles ‒ mattina scuola, pomeriggio aiuta il padre ‒, estraggono pietre, che prima lavano e poi trasportano fino alla casa di un commerciante, non lontano dalla miniera: «Come si fa a pagare la retta della scuola?. Come si fa a pagare il cibo? Dobbiamo lavorare in questo modo, perché non c’è alcun altro lavoro. Dateci un lavoro e noi ci prenderemo meglio cura dei nostri figli».
Cobalto, «This is what we die for»
Amnesty International, in collaborazione con Afrewatch (African Resources Watch), nelle scorse settimane aveva sollevato proprio la questione relativa al cobalto rendendo noto un rapporto, «This is what we die for», (Ecco per che cosa moriamo), nel quale viene ricostruito passo passo l’iter del cobalto estratto nel Congo: «Attraverso la Congo Dongfang Mining (Cdm), interamente controllata dal gigante minerario cinese Zheijang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smartphone e automobili: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono le aziende che vendono prodotti elettronici e automobili. Il Congo produce quasi la metà del cobalto a livello mondiale che viene poi utilizzato per le batterie al litio».
In seguito a questo rapporto Amnesty International ha preso contatto con le sedici multinazionali che erano risultate clienti delle tre aziende produttrici di batterie: Ahong, Apple, BYD, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e ZTE.
Delle sedici aziende interpellate da Amnesty International, «una ha ammesso la relazione, quattro hanno risposto che non lo sapevano, cinque hanno negato di usare cobalto della Huayou Cobalt, due hanno respinto ogni evidenza di rifornirsi di cobalto della Repubblica Democratica del Congo e le altre hanno promesso indagini. In particolare Apple ha risposto che l’azienda sta in questo periodo valutando da quali fonti arriva il cobalto usato nei suoi prodotti. Però LG Chem, fornitore di Apple, ha confermato che acquista cobalto dalla Tianjin Lishen e che avrebbe indagato sulle denunce di Amnesty International. Microsoft ha dichiarato di non essere in grado di andare a ritroso lungo la filiera e dunque di poter dire con assoluta certezza se il cobalto sia o meno frutto di lavoro minorile. Vodafone ha detto di non sapere se il cobalto che usa provenga o meno dalla Repubblica Democratica del Congo, poi ha smentito di avere Tianjin Lishen come fornitore, sul cui sito invece Vodafone è citata tra i clienti. Samsung sostiene che il cobalto dei prodotti che le fornisce LG Chem non passa attraverso la Huayou Cobalt».
Il documento si focalizza, come dicevamo, soprattutto su Congo Dongfang Mining International (CDM), sussidiaria di Huayou Cobalt, azienda con la quale i colossi dell’high-tech hanno relazioni indirette: «Operante in Congo dal 2006, CDM acquista cobalto dai commercianti, che lo comprano direttamente dai minatori. CDM poi fonde il materiale nei suoi impianti in Congo prima di esportarlo in Cina. Lì, Huayou Cobalt raffina e vende ulteriormente il cobalto processato ai produttori di componenti di batterie in Cina e Corea del Sud. A loro volta queste aziende vendono i componenti a chi realizza le batterie, che poi sono vendute a marchi ben noti».
Cobalto, la sfida
La sfida di Amnesty International è quella di spingere le multinazionali in questione ad avere un comportamento etico e trasparente riguardo l’utilizzo delle materie prime. Perlomeno ora le aziende citate nel rapporto non potranno più dire ‘non sapevamo’: «Molte di loro hanno promesso approfondimenti e indagini e le marcheremo strettamente. Premeremo anche perché la filiera del cobalto sia finalmente regolamentata», spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia.
La richiesta precisa di Amnesty International e Afrewatch, pericolosa ormai da ignorare per non perdere pubblicamente la faccia, è che tutte le aziende coinvolte nella filiera facciano una “due diligence”, ovvero un approfondimento minuzioso e accurato in merito all’uso di cobalto, pubblicando tutte le informazioni relative ai loro fornitori, diretti e non, poiché «il quadro emerso è quello di una mancanza complessiva di trasparenza. Sulla base delle risposte fornite dalle sedici aziende interpellate, Amnesty International sostiene che nessuna sia stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto».
Inoltre, il mercato globale del cobalto non è assolutamente regolato e negli Stati Uniti il minerale non rientra nelle regole sui “minerali da conflitto” che invece riguardano oro, tantalio, tungsteno e stagno in Congo: «Riteniamo che sebbene il cobalto non sia tra i minerali oggetto di una normativa specifica che dovrebbe impedire di rifornirsi di materie prive provenienti da zone di conflitto, le aziende dovrebbero comunque seguire gli standard internazionali dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, ndr) e dell’Onu che richiedono di fare ricerche lungo la filiera e di adottare rimedi nel caso si verifichino violazioni dei diritti umani».
«Stay hungry, stay foolish», direi che vale anche per i minatori, in senso crudamente letterale e non metaforico.