9 maggio e i suoi senza voce

di Federica Pacilio
9 maggio 1978, Aldo Moro, politico italiano, fu ritrovato morto nel baule posteriore di una Renault 4 rossa a Roma, in via Caetani, vicina sia a Piazza del Gesù (dove si trovava la sede nazionale della Democrazia Cristiana), sia a via delle Botteghe Oscure (dove si trovava la sede nazionale del Partito Comunista Italiano).
Cinque volte presidente del Consiglo, presidente del partito Democrazia Cristiana, fu rapito il 16 marzo in via Fani, a Roma, a pochi giorni dal voto parlamentare che- per la prima volta dal 1947- prevedeva la presenza del partito comunista nella maggioranza- La sua scorta fu sterminata; un agguato dall’ impressionante rapidità e precisione. In pochi minuti i brigatisti uccisero due carabinieri, Domenico Ricci e Oreste Leonardi e i tre poliziotti dell’auto di scorta Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Moro venne caricato con forza su una Fiat 132 blu. Pochi minuti dopo le stesse Br annunciarono il fatto con una telefonata all’Ansa. Il gruppo che lo sequestrò sostenne di volerlo processare, e dopo 55 giorni di prigionia in via Montalcini, fu ucciso dal gruppo terrorista. Mario Moretti, capo dell’organizzazione, eseguì la sentenza. Un solo dato certo: si tratta dei 55 giorni più bui della storia della nostra Repubblica. Ancora oggi, parlare del caso Moro implica necessariamente brancolare nel buio, affrontare una serie di intrighi, domande senza risposta e di taciuti segreti.
Lo stesso giorno morì Peppino Impastato, militante della Nuova Sinistra e giovane voce di Radio Aut, radio-denuncia, radio-protesta, radio-beffa contro la mafia e il boss Tano Badalamenti. In un paesino siciliano affacciato sul mare, Cinisi, a 30 km da Palermo, sventrato da una violenta esplosione.
“Indicammo subito il mandante Gaetano Badalamenti, ma purtroppo fu dato credito all’ipotesi dell’attentato terroristico e del suicidio. Si dette credito alle dichiarazioni di Buscetta che dava Badalamenti per “posato” da Cosa Nostra già nel periodo dell’assassinio”. Queste furono le parole di Umberto Santino, presidente del Centro siciliano documentazione “Giuseppe Impastato”. L’11 aprile del 2002 la Corte d’assise di Palermo condannò Gaetano Badalamenti alla pena dell’ergastolo come mandante dell’assassinio di Peppino Impastato. Il 1 luglio del 2004 la Corte d’Assise d’Appello archiviò, dopo il decesso, il secondo processo a carico del boss di Cinisi, morto il 29 aprile 2004 negli Stati Uniti dove era detenuto. Giovanni Impastato, fratello di Giuseppe: “La mia famiglia era di origine mafiosa. Mio zio Cesare Manzella, sposato con una sorella di mio padre, capo della cupola negli anni Sessanta, viene ucciso nell’aprile del 1963 con la prima autobomba nella storia dei delitti di mafia. Peppino sin da subito mi disse che si sarebbe battuto tutta la vita contro la mafia. E iniziò la sua rottura all’interno della società, del suo paese ma soprattutto della propria famiglia.” Visti i precedenti familiari, la lotta del giovane Impastato assume una maggiore importanza, una nobiltà senza fine che, sicuramente, ha rappresentato un determinante segnale per la lotta alla mafia.
Oggi è stato celebrato al Quirinale “il Giorno della memoria”. “Segni positivi per il superamento di una stagione di anni laceranti e distruttivi come quelli dalla fine degli anni ‘60 agli anni ’80, culminati con il terrorismo delle Br e l’omicidio di Aldo Moro”, così ha commentato l’iniziativa il presidente Napolitano, nata dalla legge n. 56 del 4 maggio 2007 “al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice”. La cerimonia è stata preceduta dalla deposizione di una corona di fiori del Presidente della Repubblica davanti alla lapide che ricorda il massacro di Aldo Moro. Tante le iniziative, le letture e i film-documentari trasmessi durante queste ore, molte le associazioni, le famiglie e le personalità raccolte per stringersi attorno a quel che resta delle vittime.
Tanti, troppi i nomi da ricordare, le croci incise sulla storia della nostra Italia.