Telegram, il CEO Pavel Durov rilasciato su cauzione
Continua l’inchiesta sulle attività criminali che coinvolgono l’app di messaggistica Telegram ed il suo amministratore delegato, Pavel Durov.
Sabato 24 agosto, dopo essere atterrato all’aeroporto Le Bourget, il CEO è stato arrestato e tenuto in custodia cautelare. Il fermo è terminato ieri, quando Durov è stato rilasciato su cauzione pari a 5 milioni di euro, con l’obbligo di presentarsi presso una stazione di polizia due volte a settimana e di non lasciare il territorio francese.
Con il passare del tempo, la vicenda si arricchisce di dettagli, mentre è in corso un lungo dibattito sul futuro non solo di Telegram, ma di tutte le piattaforme digitali.
Caso Durov: i capi d’accusa
L’indagine su Pavel Durov, il CEO di Telegram, è stata avviata nel febbraio 2024, da parte dell’unità informatica della Giurisdizione nazionale per la lotta alla criminalità organizzata della Procura di Parigi (JUNALCO).
Secondo l’ultimo comunicato stampa, firmato dal pm Laure Beccuau e pubblicato su X dal deputato Éric Bothorel, Durov è stato incriminato per ben 12 capi d’accusa. Tra i reati più gravi compare soprattutto la complicità nella diffusione da parte di una banda organizzata di immagini di carattere pedopornografico, nonché di materiale utile al traffico di stupefacenti e truffa.
Da sottolineare è poi il rifiuto di collaborare con le forze dell’ordine e di fornire informazioni per le indagini.
Una trama sempre più fitta
Nell’ultimo periodo, si sono aggiunti sempre più dettagli alla vicenda, provenienti specialmente dal passato. Prima di tutto il 2017, anno in cui Durov è stato al centro di un’operazione di spionaggio dei servizi segreti francesi, congiunti a quelli degli Emirati Arabi Uniti, per il timore che Telegram venisse impiegato da Stato Islamico, da trafficanti di droga e criminali informatici.
Poi il 2018, anno in cui il CEO ha rifiutato la richiesta del presidente Emmanuel Macron di spostare la sede legale di Telegram a Parigi.
E infine le ultime rivelazioni del sito Politico, secondo cui Durov sarebbe accusato anche di gravi violenze contro uno dei suoi figli. Tutti elementi che vanno ad aumentare la pressione nei suoi confronti e soprattutto sul suo impero mediatico.
Telegram sotto i riflettori: privacy o lotta al crimine?
È la prima volta che l’amministratore delegato di una piattaforma tecnologica viene arrestato per i contenuti presenti su di essa.
Ma Telegram ha sempre fatto un po’ di testa sua, dunque non possiamo stupirci. Fondata nel 2013, l’app di messaggistica di Durov conta attualmente 900 milioni di utilizzatori, 41 milioni di profili.
Se arrivasse a 45, scatterebbe il Digital Services Act, il regolamento che impone l’obbligo della trasparenza alle piattaforme digitali. Ecco perché Telegram è sotto lo sguardo attento dell’UE.
Nel corso degli anni, la piattaforma ha acquisito la fama di app estremamente sicura dal punto di vista della privacy, grazie al sistema di crittografia end-to-end presente nelle chat private. Con il tempo, è diventata un habitat perfetto per lo scambio di materiale pedopornografico, per la diffusione di gruppi di estremisti e terroristi, nonché per lo spaccio di droga. Tutte realtà in cui i piani alti di Telegram non vogliono entrare, neanche per casi penali gravi.
L’opinione sul caso Durov non è unanime. Da un lato Telegram è vitale per chi vive in paesi dove i media subiscono un rigido controllo governativo, in quanto consente loro di ottenere informazioni su ciò che accade all’estero e nel proprio paese.
Ecco perché il tycoon Elon Musk, fautore dell’hashtag #FreePavel, ha accusato la Francia di aver scatenato un caso politico e di voler limitare la libertà di informazione. Il timore prevalente è che l’arresto del CEO crei un precedente fatale: i governi più autoritari potrebbero iniziare a controllare sempre di più le app di questo tipo.
Dall’altro, Telegram rimane un nido forse troppo sicuro, per chi vuole trovare, scambiare, diffondere di tutto. Del resto, il motto di Durov è sempre stato «la privacy è più importante della nostra paura che succeda qualcosa, per esempio un attacco terroristico».
E occorre sicuramente riflettere sui limiti etici di un’affermazione del genere.