Premierato, tra rischi e opportunità

Meloni tira dritto sull’elezione diretta del premier: “Se in Parlamento non ci sarà una maggioranza, si dovrà ricorrere al referendum”

Il premierato, in breve
Giorgia Meloni è stata chiara riguardo il premierato e l’ultima dichiarazione all’assemblea della Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigianato) è stata un’ulteriore conferma: “Saranno i cittadini a dirci se vorranno chiudere la stagione dei ribaltoni e dei giochi di Palazzo. Serve stabilità di governo”. In effetti, in 75 anni di storia repubblicana, l’Italia ha avuto ben 68 governi, con un orizzonte medio di un anno e mezzo. Per contrastare questi costanti cambiamenti all’apice, una svolta la potrebbe dare il cosiddetto premierato. Esso, nel suo modello più noto (ossia quello del Regno Unito, chiamato “modello Westminster”) prevede che il ruolo di capo del governo sia affidato al leader del partito principale, facendo sì che gli elettori votino, indirettamente, per il candidato al ruolo di capo del governo (ferma restando la possibilità che, in seguito, questi venga sostituito a partire da un voto interno al partito) e che quest’ultimo sia anche guida della maggioranza parlamentare, garantendo al governo una certa stabilità. Il premierato in salsa italiana/meloniana prevederebbe, invece, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e, nel qual caso quest’ultimo sia sostituito, il suo successore deve essere obbligatoriamente selezionato comunque all’interno del partito o della coalizione di provenienza del precedente, affidandogli la possibilità di scioglimento delle Camere in caso di crisi o sfiducia.
Dati alla mano
Nei primi venti anni di questo millennio fino al 2020, la Francia ha avuto 4 presidenti della Repubblica, la Germania 3 Cancellieri, mentre l’Italia 8 presidenti del Consiglio che hanno presieduto 11 governi diversi. La riflessione di Meloni su questo argomento si basa sul fatto che nello stesso periodo preso in esame “Francia e Germania sono cresciute di più del 20%, l’Italia meno del 4%”. In 75 anni sono cambiati i protagonisti, le leggi elettorali, i partiti, “però l’instabilità è rimasta sempre la stessa”, conclude. L’unica cosa che non è mai cambiata è, invero, la base del sistema, cioè la Costituzione. Tale riforma costituzionale, secondo Meloni, sarebbe il tassello fondamentale per imprimere più stabilità politica all’Italia, ma le voci che si oppongono sono tante e variegate. Se Romano Prodi (intervistato a PiazzaPulita da Corrado Formigli) non vuole questa riforma “perché spazza via il Parlamento”, per Alessandro Calvi de L’Essenziale, il potere del Presidente del Consiglio sarebbe senza contrappesi e il Parlamento diverrebbe così residuale.
Dubbi e malumori
Alcuni ritengono, infatti, che per garantire la tanto agognata stabilità basterebbe una buona legge elettorale di maggioranza, senza bisogno del premierato. Questa è la linea di vedute sposata da Gustavo Zagrebelsky e Giovanni Maria Flick, entrambi ex presidenti della corte costituzionale. Se, di certo, l’esecutivo acquisirebbe più potere e, sulla carta, sarebbe unito per raggiungere la stabilità del paese, il Presidente della Repubblica e il Parlamento tutto finirebbero per svolgere un ruolo residuale, di natura quasi notarile rispetto al capo dell’esecutivo. Il problema di avere un dominus assoluto ha provocato un certo malumore, anche a destra, soprattutto perché il premio di maggioranza al 55% inserito nella bozza della riforma solleva molti dubbi e qualche malumore interno alla Lega. La formula, però, potrebbe rivelarsi presto gattopardiana: “Il premierato si può cambiare, ma l’opposizione non dica solo no”, queste le parole di Maria Elisabetta Casellati, convinta che un ritocco costituzionale porterà sicura “credibilità, sul fronte economico e politico, che non possiamo avere senza governi stabili”.
I precedenti
La “madre di tutte le riforme” ha dei famosi precedenti: durante la XIV legislatura, la maggioranza parlamentare che sosteneva il governo della Casa delle Libertà approvò un disegno di legge costituzionale concernente alcune “Modifiche alla Parte II della Costituzione” che ampliava i poteri del Capo del governo. Tale riforma fu pertanto presentata come un tentativo di introdurre in Italia il premierato, ma, in questa versione del 2006, l’elezione diretta del primo ministro era prevista soltanto secondo modalità stabilite dalla legge e non escludeva la nomina da parte del presidente della Repubblica. Il primo ministro, inoltre, nominava e revocava i ministri, senza la necessità di decreti presidenziali e poteva proporre lo scioglimento della Camera dei deputati.
Resta il fatto che, come detto da Filippo Ceccarelli su La Repubblica, “tra le forme di suicidio politico che la vita pubblica italiana offre ai premier smaniosi, il referendum costituzionale rientra nel novero delle più efficaci”. Effettivamente, si tratta di uno degli argomenti più scivolosi possibili, in cui la sovranità che appartiene al popolo rischia di non essere esercitata, effettivamente, nelle forme e nei limiti della Costituzione.