Sudan. L’ennesimo fallimento del processo di transizione democratica

Da più di dieci giorni il Sudan sta vivendo l’ennesima guerra intestina, il tentativo di transizione verso la democrazia che doveva risolversi in seguito alla defenestrazione dell’ex-presidente Al-Bashir ha mostrato tutte le sue debolezze e l’infondatezza dei presupposti. Di poche ore fa la conta delle vittime che salgono a 295 civili secondo il Sindacato dei medici sudanesi; i feriti sono 1790. Sempre di oggi la dichiarazione del Ministro degli affari esteri Antonio Tajani che ha affermato: “purtroppo la situazione è molto complicata, c’è di fatto una guerra civile in corso, noi fortunatamente siamo riusciti a far rientrare in Italia tutti i nostri concittadini che lo chiedevano, rimane ancora qualche missionario e qualche volontario delle ONG, ma su loro richiesta sono rimasti in Sudan”.
L’ONU ha invece fatto sapere che nessuna delle parti ha al momento intenzione di negoziare e quello che avrebbe dovuto essere il secondo giorno di tregua vede un cessate il fuoco rispettato solo in alcune parti del paese, in particolar modo gli scontri sono continuati nei pressi dell’aeroporto internazionale di Khartoum, della residenza ufficiale del presidente e verso siti militari.

L’antefatto
Facciamo un passo indietro e cerchiamo di ricostruire lo scenario che ha portato all’inizio degli scontri, cercheremo di non andare troppo indietro nel tempo ma è necessario partire dal 1956, anno della crisi del canale di Suez e, allo stesso tempo, anno dell’indipendenza del Sudan dal Regno Unito. Ripercorrendo velocemente questi sessanta e più anni, bisogna fissare, oltre ai numerosi governi militari, il periodo che dal 1989 al 2019 ha visto dittatore il “presidente” Omar Hasan Ahmad al-Bashir. Salito al potere con un colpo di stato, ha governato per un trentennio insieme al Fronte Nazionale Islamico di Ḥasan Turābī. Una dittatura con tutti i sacri crismi: privazione dei diritti fondamentali dell’uomo, tentativi di pulizia etnica, mutilazione genitale femminile e pena di morte per omosessualità e apostasia.
Il 2019 vede di fatto la fine di questo governo, la storia si ripete e, per mano di un golpe, Al-Bashir viene costretto alle dimissioni. A guidare quello che avrebbe dovuto essere un lento periodo di transizione verso la democrazia vi era Abdalla Hamdok ma, nuovamente, anche a causa della mancata integrazione dei rivoluzionari all’interno di un esercito regolare, due generali di fazioni contrastanti hanno ripreso a giocare alla guerra.

La prospettiva
Le due fazioni che si contendono il controllo del paese sono le “regolari” Forze Armate Sudanesi (FSA), guidate dal generale Abdel Fattah Abdelrahman Al-Burhan e il suo “ex-vice” Mohamed Hamdan Dagalo Hemeti, a capo delle Rapid Support Forces (RSF), gruppo paramilitare i cui componenti proveniente da alcune regioni del Darfur sono noti come janjāwīd, demoni a cavallo. Entrambe le fazioni erano coinvolte nei ripetuti colpi di stato falliti degli anni precedenti. Al-Burhan è accusato dalle RSF di voler instaurare nuovamente un regime di matrice islamica, ponendosi de facto come il nuovo Al-Bashir. Non è sciocco ipotizzare, come sempre, i notevoli influssi provenienti da paesi il cui intento sarebbe quello di offrire aiuti in maniera tentacolare, con un tornaconto economico e divisorio che è il prodotto della realpolitik. Una cosa è certa, siamo di fronte all’ennesima crisi umanitaria che vede, a poco più di dieci giorni dall’inizio del conflitto, 270.000 persone pronte a fuggire dalle proprie terre.