Venire a conoscenza del Qatargate è stato come vedere le rondini volare basse prima del maltempo. Un presagio di come quanto avvenuto sia l’ennesima conferma di come la lobby sia marcia, pronta a tutto e una “minaccia per la democrazia”.
Sebbene la ricerca semi seria di Brussels Affirmations dimostri che l’ecosistema di Bruxelles abbia delle regole tutte sue, quanto successo non è necessariamente “colpa della sporca lobby”. Forse, quello che è successo in questi giorni tra il Qatar (e apparentemente altri paesi) e il Parlamento Europeo spiega più le mancanze di un’istituzione europea in termini di trasparenza che confermare la triste reputazione della nostra cara lobby.
Innanzitutto, la dinamica degli avvenimenti, ancora da accertarsi, suggerisce che ci sia stata una compravendita “reputazionale” in favore di stati non europei. In questo caso, quindi, gli interessi rappresentati sono diplomatici e di soft diplomacy, due aree che non riguardano la lobby.
Questa compravendita, o corruzione, è avvenuta tra uno o più membri delle istituzioni europee e dei diplomatici esteri. Sì, fa sentire traditi sapere che anche chi è al (vice)vertice di istituzioni europee possa preferire dei soldi ai propri elettori, ma occorre che tale rabbia non accechi. In questo caso, i protagonisti sembrano essere coloro che hanno rappresentato degli interessi (inter)nazionali. Ricordiamo infatti che, secondo l’articolo 2 dell’Accordo interistituzionale su un registro per la trasparenza comune alle istituzioni europee, le pubbliche autorità di paesi terzi non hanno l’obbligo di registrare i propri incontri con le istituzioni.
Rimane da chiedersi quale sia stato il modus operandi e come si può spiegare che ciò che è accaduto è ben lontano dal concetto di lobby?
Semplice: perché la lobby non è sinonimo di oligarchia, non è corruzione e non è un male.
Fare lobby è una professione che permette, tanto quanto la politica, di rappresentare gli interessi di una minoranza a beneficio della maggioranza. Viviamo in una società complessa, piena di connessioni e relazioni. Pertanto, è importante che chi è stato eletto per la propria capacità di prendere decisioni su materie diverse debba essere adeguatamente informato delle specificità delle proprie politiche. Ricordiamoci infatti che, sebbene Onorevoli, i politici non possono anche essere Onniscienti.
Mi piace qui pensare come la nostra stessa Costituzione possa sposare quest’idea, permettendo al Presidente della Repubblica di nominare senatori a vita cittadini che “abbiano illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. In questo modo, la nostra Carta non solo premia i successi personali di queste figure, ma permette alle competenze di partecipare nei processi decisionali. Quanto è frustrante conoscere leggi che sono chiaramente scritte da chi non conosce il proprio settore, e che spesso ostacolano, piuttosto che aiutare?
Per questo, fare lobby non può essere corruzione. Proprio per il fine di far funzionare al meglio la parte della società che si rappresenta, è nell’interesse del lobbista svolgerlo nella maniera più trasparente possibile. Che utilità può avere, sia in termini legali sia, forse più importanti in questo caso, reputazionali, ottenere in maniera illecita un beneficio per chi si rappresenta?
Collaborare, informando i decisori pubblici e costruendo insieme a questi e queste le politiche del futuro, è un’azione troppo preziosa per rischiare di essere macchiata di errori come la corruzione. E questo i lobbisti e i rappresentanti di interessi virtuosi lo sanno bene. Che si tratti di presentarsi volontariamente in audizione davanti al Parlamento italiano quando la legge sulla rappresentanza di interessi viene discussa o di essere i primi volontari a firmare il Registro pubblico delle istituzioni europee.
Per un esercizio teorico, ammettiamo che una lobbista accetti di fare da mediatrice in un’azione illecita.
Le motivazioni dietro a una tale operazione potrebbero essere o ideologiche, o economiche. Auspicando che ogni lobbista si attenga ad una deontologia professionale, qualora invece la lobbista fosse stimolata dai soldi, quale somma sarebbe necessaria per pagare la sua stessa rovina? Perché mentre tutto potrebbe filare liscio, corruzione e risultati, spesso queste macchinazioni vengono scoperte e pubblicamente diffamate. Quindi, per quale somma una lobbista accetterebbe di corrompere, ben sapendo che l’atto possa portare con sé un danno reputazionale tale da escluderla da futuri incarichi?
Piuttosto che cedere a simili reati, non è forse più intelligente (e conveniente) per un lobbista ottenere la stessa ipotetica somma, invece che illegalmente, fatturandola a diversi clienti? Specie in una network society come la nostra dove il passaparola (leggasi reputazione pubblica) è il marketing gratuito migliore se i nostri servizi sono di qualità. In questo modo, oltre alla realizzazione professionale della lobbista, si garantirebbero future opportunità lavorative – per potenziali guadagni maggiori.
A scanso di equivoci, non si può evitare di ricordare che in un mondo, ancora una volta, complesso come il nostro, non esistono solo “buoni” e “cattivi”, “santi politici” e “lobbisti peccatori”. Invece, è utile riconoscere quella fetta di mele marce che, tra regole, leve e bottoni, fermentano manipolando e corrompendo. Facendo però attenzione a ridimensionarne l’importanza.
Come spiega Alberto Alemanno nel suo libro Lobbying for Change: Find Your Voice to Create a Better Society (tradotto in italiano da TLON), fare lobby “significa innanzitutto partecipare e quindi contribuire al processo decisionale”. In questo modo, chi è al di fuori della “stanza dei bottoni” può informare i decisori pubblici di come leggi, politiche e decisioni “incidano sugli interessi e sulle opportunità” della società. Che forse questo scandalo possa essere più un’opportunità per riformare le istituzioni europee e il loro funzionamento, che un’occasione per dirottare la propria rabbia sul bersaglio sbagliato? Spesso, infatti, media e politica preferiscono puntare il dito contro i lobbisti e le loro (presunte) nefandezze, piuttosto che assumersi le proprie responsabilità.
Mettiamo il caso in cui noi cittadini volessimo sapere chi abbia incontrato l’Europarlamentare da noi votata durante lo svolgimento delle sue funzioni. Per questo, esiste il Registro per la trasparenza, comune a Commissione, Parlamento e Consiglio. Registro che, purtroppo, sia basa per la maggior parte sulla volontarietà dei parlamentari di iscriversi. Invece (per tornare al discorso punitivo), è prevista per i rappresentanti di interessi che non volessero firmare la sanzione di non poter accedere alle istituzioni stesse. Cosa che non limita necessariamente la possibilità di interagire con chi vi lavora e di “pascolarvi” attorno, visto il successo dei Plux del Giovedì.
Facendo alcune distinzioni necessarie, senza per questo finire a una caccia al colpevole (non è il nostro ruolo) e sapendo quanto bene possa fare e faccia fare lobby, come è ancora possibile considerarla un inquinamento della politica?
Articolo a cura di Lorenzo Canu