Qual è veramente il gioco dell’anno?

Il 2018 sta per finire, ed è stata un’ottima annata per i videogiochi, forse anche più dell’ottimo 2017. Si sono da poco svolti i The Game Awards, celebre cerimonia annuale dedicata all’industria videoludica, iniziata la bellezza di quindici anni fa con il nome di Video Game Awards.
Ai The Game Awards vengono assegnati numerosi premi ai videogiochi e a chi ci ha lavorato, ma l’assegnazione dei premi nel mondo videoludico non viene riconosciuta dai giocatori allo stesso modo di altri tipi di premiazione, ad esempio le premiazioni sportive o cinematografiche, il che porta a diverse piacevoli discussioni.
In questo articolo andremo ad analizzare i contendenti, le premiazioni, e soprattutto i motivi di queste scelte.
Cavalcando verso la vittoria
L’opinione comune era che il premio di gioco dell’anno a The Game Awards 2018 andasse assegnato a uno tra God of War e Red Dead Redemption II, con quest’ultimo come favorito.
Il titolo di Rockstar Games è in realtà un prequel del primo capitolo, e vede come protagonista Arthur Morgan, membro fedele della banda di Dutch Van der Linde di cui fanno parte anche John Marston (protagonista del primo Red Dead Redemption) con moglie e figlio.
Erroneamente giudicato in anticipo da alcuni come un Grand Theft Auto western, Red Dead Redemption II è in realtà un’opera molto meno “pop” rispetto al titolo Rockstar più famoso, ma è proprio questo che lo rende un capolavoro.
Red Dead Redemption II è un open world che riproduce la vita nel selvaggio West in maniera fortemente realistica grazie a una cura maniacale del gameplay, anche al costo di sacrificare un po’ di immediatezza.
A partire dai movimenti di Arthur Morgan, per cui Roger Clark ha anche ricevuto il premio per la miglior performance, partendo dalla sua camminata a gambe un po’ divaricate tipica di un uomo abituato ad andare a cavallo; passando per la sua interazione con l’ambiente, dallo spostare rami e foglie mentre si muove in mezzo alla vegetazione fino allo scivolare rovinosamente quando tenta di scalare pendii troppo ripidi.
Anche il sistema di cavalcatura presenta numerosi elementi di gameplay: le caratteristiche proprie del cavallo, il legame con esso per evitare di essere disarcionati sia nel sellaggio che durante la cavalcata (oltre a migliorare il richiamo a distanza e sbloccare nuovi comandi), la possibilità di calmarlo quando prova fastidio nel camminare fra la vegetazione, o quando si spaventa nei pressi di un burrone, o di un animale pericoloso, ecc. Anche il cavallo, come Arthur Morgan, va in seria difficoltà su pendii troppo ripidi, così come rischia di cadere e farsi male se cavalcando va a sbattere contro un grosso ostacolo, facendo anche fare un bel volo al nostro protagonista.
L’interazione con gli NPC mostra come Rockstar abbia creato un mondo vivo: si può interagire con chiunque, scegliendo di parlare, anche semplicemente per un saluto, oppure provocare, o rapinare, ma anche stendere a terra le persone per minacciarle o picchiarle. Gli NPC reagiscono di conseguenza: una provocazione può scatenare una rissa; invadere lo spazio o la proprietà di qualcun altro può portarli a difendersi con armi da fuoco; commettere un crimine davanti a qualcuno, o lasciare un cadavere in giro, porterà il testimone a correre dagli uomini di legge che faranno partire le indagini o il mandato di cattura, e… no, uccidere tutti i testimoni e scappare non è una soluzione: i crimini più gravi non vengono dimenticati, e in questo caso verrà messa una taglia per tutto lo stato in cui è stato commesso il crimine, finché questa non verrà pagata in un ufficio postale.
Più è alta la taglia, più sarà difficile muoversi nell’area in cui si è ricercati, ma si può addirittura tentare di aggirare il problema cambiando abiti, barba e capelli, o indossando maschere o bavagli quando si compie un crimine.
Durante le lunghe cavalcate nell’esplorazione libera si faranno quasi sempre incontri casuali che avranno delle conseguenze in base alle scelte: aiutare una persona in difficoltà potrebbe permettere di incontrarla più avanti e vedere ricambiato il favore; interferire nel crimine che sta venendo commesso da altri può portare guai, ma aspettare ad esempio che due banditi aprano una cassaforte da anche la possibilità di soffiargli il bottino.
Un’area decisamente viva di questo open world è l’accampamento della banda, dove oltre a missioni primarie e secondarie si può anche semplicemente svolgere attività che cambiano la reputazione (gli NPC potrebbero addirittura rivolgersi in maniera diversa in base alle azioni che si compiono!)
Si potrebbe andare avanti a lungo ad elencare tutte le caratteristiche e le attività che fanno di Red Dead Redemption II un nuovo punto di riferimento per gli open world, ma oltre a tutto ciò va citato un altro elemento più unico che raro nel suo genere: una narrazione di livello tra i più alti del medium videoludico, dalla storia principale fino alle piccole attività, arrivando a dare anche ai personaggi meno importanti un minimo di caratterizzazione. Non è un caso che il gioco abbia vinto anche il premio per la miglior narrativa.
Per quanto riguarda invece la parte action del gameplay, è dove probabilmente Rockstar ha voluto mettere meno le mani con la sua ricerca del realismo, senza però rinunciarvi del tutto: il sistema di mira è più difficile da padroneggiare, soprattutto a cavallo; le coperture durante le sparatorie restano fondamentali come nel primo capitolo, così come i pochi colpi a disposizione prima di essere costretti a ricaricare. Inoltre, c’è un limite alle tipologie di armi trasportabili, il resto viene lasciato nel carico del cavallo.
Tutto ciò è condito da un comparto tecnico che, pur non essendo il migliore a livello poligonale e di fondali negli open world, eccelle nelle animazioni e negli effetti di luce. Meritatissimi anche i premi per la miglior colonna sonora e il miglior design audio: le musiche western hanno pochi rivali.
E’ vero che molti elementi di Red Dead Redemption II sono presenti anche in altri titoli, tra cui proprio Grand Theft Auto, ma bisogna tenere bene a mente che “originalità” non è per forza sinonimo di “migliore”, e Rockstar Games è riuscita semplicemente a mettere quasi tutti i tasselli al loro posto per creare qualcosa di mai visto fino ad ora.
Superato a un passo dal traguardo
Sul fatto che il gioco dell’anno sia uno tra Red Dead Redemption II e God of War non sembrerebbero esserci molti dubbi, che tale premio ai The Game Awards venisse assegnato proprio al titolo dei Santa Monica, però, è stato un po’ sorprendente.
Anche il motivo di questa scelta sembrerebbe essere stato approvato all’unanimità tra i giocatori, ed è un motivo che merita di essere discusso: Rockstar Games ha puntato a creare un selvaggio West più realistico possibile, tramite una cura maniacale del gameplay e una narrazione di alto livello. Questo scelta, però, comporta anche dei lati negativi.
Chiunque abbia messo mano a Red Dead Redemption II si sarà accorto della lentezza di questo gioco: un open world ambientato nell’America del 1899 comporta anche lunghi spostamenti a cavallo in quella che per lo più è terra selvaggia. E’ vero che nell’esplorazione libera capitano continuamente anche eventi casuali lungo il tragitto, così com’è vero che nelle cavalcate in compagnia è stato usato il sistema narrativo tipico degli ultimi anni, ovvero il dialogo tra i vari protagonisti. Ciò non toglie che ci sono davvero molte sessioni lunghe a cavallo che possono annoiare, e il viaggio rapido è presente in maniera abbastanza limitata, al contrario di quanto avviene in altri open world.
Anche la storia principale, nonostante i numerosi picchi di adrenalina, procede abbastanza a rilento almeno fino alla sua metà, sviluppandosi in missioni che narrano in maniera ottimale quella che è la vita dei protagonisti e che mostrano ogni possibilità che offre il gameplay.
Infine, Rockstar ha probabilmente cercato anche una certa sensibilità nel sistema di mira, pur lasciandolo comunque immediato, cosa che potrebbe non piacere a qualcuno.
God of War è più immediato in tutto questo, con un sistema di combattimento più tecnico, e un’azione più frenetica nonostante l’inserimento di un’esplorazione che era inesistente nei precedenti capitoli della saga; il tutto compreso in un sistema di difficoltà selezionabile tra i più bilanciati in assoluto (esempio: l’equivalente della difficoltà “normale” è davvero, come dice il nome stesso, “un’esperienza bilanciata”)
I videogiochi sono sicuramente pop-cultura, e si discute molto sul fatto che possano anche essere definiti “arte”, dimenticandoci però che il videogioco è prima di tutto un medium di intrattenimento.
Per citare Hideki Kamiya, sviluppatore di celebri titoli per conto di Capcom e Platinum Games: “Per me i videogiochi non sono arte. Voglio essere un intrattenitore, non un artista.“
Ciò non significa assolutamente che la premiazione di God of War sia qualcosa di paragonabile al “caso Fortnite” di cui parleremo più avanti, perché God of War è anch’esso un capolavoro.
Il team Santa Monica ha saputo dare un esempio di come proseguire una lunga serie videoludica senza renderla ripetitiva né stravolgerla, riproponendo le basi della saga sotto una nuova veste.
Kratos è palesemente lo stesso, ma con l’obiettivo di cambiare vita, in particolare per il rapporto con suo figlio Atreus che lo accompagna in questa nuova avventura. Ed è sempre con la severità spartana che Kratos cerca di educare suo figlio e di affrontare il nuovo mondo decisamente non suo in cui è stato inserito: un mondo più pacifico, seppur in pericolo, ma che lo vedrà protagonista molto più che nella mitologia greca.
God of War a livello narrativo non ha nulla da invidiare a Red Dead Redemption II, anzi, trovo che gli avvenimenti della nuova avventura di Kratos siano anche più coerenti, sebbene anche questa trama presenta qualche piccolo difettuccio.
Per quanto riguarda la grafica, la realizzazione poligonale va ovviamente a favore di God of War, non essendo un open world, così com’è ovvio che Red Dead Redemption II ha la meglio per quanto riguarda, ad esempio, la visuale di fondo. Tuttavia, la grafica del titolo Rockstar, per quanto eccellente in tantissimi aspetti, in particolar modo nell’interazione con l’ambiente e negli effetti di luce, non è un nuovo picco nel genere open world, al contrario ad esempio di quello che è stato la grafica di Horizon Zero Dawn nel 2017 e che per diversi aspetti gli è ancora superiore (così come sotto certi aspetti credo che abbia la meglio la grafica di Spiderman).
Da non dimenticare poi che God of War è girato interamente in un solo piano sequenza: la telecamera riprende dall’inizio alla fine senza alcun taglio, stacco, o caricamento, e senza risentirne nella qualità della regia, mantenendo il framerate fisso a 30fps. Una novità assoluta che ha giustamente consegnato a God of War anche il premio per la miglior regia.
Infine, difficile paragonare il gameplay essendo due generi diversi, sebbene non si possa non premiare la cura maniacale di Rockstar per il gameplay di Red Dead Redemption II. Se però andiamo a confrontare la componente action dei due titoli, God of War stravince, per via delle numerose possibilità offerte dal sistema di combattimento e dal bilanciamento e possibilità di selezione della difficoltà, rispetto al sistema di sparatorie di Red Dead Redemption II che è, volutamente, la parte più semplificata del gioco.
Gli altri contendenti
In ambito videoludico non sarà un premio a decidere veramente qual è il gioco dell’anno, per tanto il confronto tra God of War e Red Dead Redemption II continuerà a far discutere.
Senza dubbio gli altri candidati non potevano inserirsi in questa lotta, ma hanno meritato la candidatura e meritano anche qualche riga in questo articolo.
Partiamo da una serie che riceve troppe critiche da parte dei giocatori, ma che negli ultimi due anni ha giustamente ricevuto gli apprezzamenti della critica. Se non era affatto scandaloso, come qualcuno può pensare, che Cory Barlog, director di God of War, abbia messo Assassin’s Creed Origins al primo posto nella lista degli otto videogiochi che secondo lui vanno assolutamente giocati, non lo è neanche Assassin’s Creed Odyssey tra i candidati per il gioco dell’anno.
Assassin’s Creed Origins aveva i suoi difetti, ma è un ottimo gioco che ha rilanciato la saga e che sotto diversi aspetti si fa anche preferire ad altri grossi titoli apprezzati all’unanimità o quasi. Con Assassin’s Creed Odyssey, Ubisoft ripropone la stessa struttura ma in maniera decisamente migliorata, rafforzando notevolmente tutte le novità proposte nel precedente capitolo e inserendo altre novità interessanti.
In particolare, Assassin’s Creed Odyssey va a correggere quasi tutti i difetti di Assassin’s Creed Origins: i buchi di trama, l’integrazione con l’open world (che ora è tra le migliori in assoluto), il comparto tecnico sui fondali e sui particellari, ecc.
Tuttavia il gioco non è ancora esente da difetti vistosi: il framerate ballerino, le animazioni nelle cutscene un po’ forzate, l’IA non sempre impeccabile, il sistema di selezione delle abilità che, a mio parere, ha bisogno di qualche ritocco, e poi c’è l’argomento delle preferenze dei giocatori che in questo caso può far discutere: quanto può piacere una mole così grande di attività nell’open world? Quanto pesa la scelta di Ubisoft di ambientare un capitolo di Assassin’s Creed in un’epoca così antica da presentare pochi elementi tipici della saga? Quanto pesa l’inserimento così marcato della componente GDR? Le ultime due domande sono da porsi a maggior ragione quando c’è God of War che è un ottimo esempio di come rinnovare una saga.
Rimane il fatto che se Assassin’s Creed Origins è un ottimo titolo, che riesce a intrattenere al punto tale da metterlo a confronto con i titoli più importanti, Assassin’s Creed Odyssey si avvicina molto al costringere la critica a cercare il pelo nell’uovo per trovare difetti significativi.
Le critiche potrei appunto beccarle io, per aver parlato di Assassin’s Creed Odyssey prima di Marvel’s Spider-Man, un titolo a cui molti avrebbero dato tranquillamente il premio di gioco dell’anno.
Trattasi di un open-world che può piacere anche a chi non ama questo genere, essendo fortemente story-driven, con una trama degna delle migliori storie dell’Uomo Ragno e che fa venire voglia di avere un sequel il prima possibile.
Gli spostamenti per Manhattan spingono a NON usare il viaggio rapido, comunque disponibile, perché è molto veloce e troppo divertente lanciarsi tra i palazzi con le ragnatele, una volta padroneggiati i comandi. Da apprezzare la cura con cui è stata realizzata la città (pur non esente da qualche difettuccio tecnico) nonostante la maggior parte del tempo nella mappa lo si passerà probabilmente a saltare da un tetto a un altro.
Notevole anche la colonna sonora che parte ogni volta che si inizia uno spostamento con le ragnatele, andando a creare un effetto che ricorda moltissimo i film di Spider-Man. Non è un caso che il gioco abbia preso delle candidature anche per il premio di miglior colonna sonora e miglior design audio.
Il sistema di combattimento è spettacolare e facile da apprendere: basato per lo più sui sensi di ragno per evitare la sconfitta, permette poi un insieme di combo, abilità, e gadget per raggiungere la vittoria come si vuole.
Marvel’s Spider-Man presenta delle qualità dall’impatto notevole, ma allo stesso tempo anche dei difetti evidenti.
Come detto in precedenza, si tratta di un open world che può piacere anche a chi non ama questo genere, ma questo porta anche i suoi lati negativi: le missioni secondarie, seppur ben integrate nello stile narrativo, si sviluppano in maniera molto semplice e sono ben lontane da quelle viste negli ultimi anni che arrivano anche a essere della stessa qualità della main quest.
Allo stesso modo, la libertà in combattimento può essere vista come un difetto rapportata alla bassa difficoltà del gioco, che rimane molto facile anche se giocato in modalità “Spettacolare”. Così facendo le numerose scelte disponibili nel sistema di combattimento non sono per forza necessarie, bensì solo una possibilità di giocare in modo diverso.
C’è poi il ritorno in pompa magna di Monster Hunter su PlayStation e il suo approdo su PC e Xbox ONE. La fortunata serie di Capcom ritorna con Monster Hunter: World, sfruttando così le capacità della current gen.
Per la gioia dei fan, Monster Hunter: World ripropone tutte le caratteristiche tipiche della saga insieme ad altre novità interessanti, dando il via a una nuova caccia ai mostri tramite un gameplay molto tecnico, ma anche e soprattutto con delle agevolazioni per i neofiti che magari hanno sempre ammirato la serie senza mai seguirla negli anni passati sulle console portatili Nintendo. Agevolazioni che non vanno a scalfire le basi del gioco, rendendo anzi meno macchinosi alcuni elementi di gameplay.
Capcom ha quindi riportato Monster Hunter su console casalinghe e apportato le modifiche necessarie per un’apertura definitiva a un pubblico più ampio, senza però snaturarne le basi, ma avrebbe potuto osare un po’ di più per una definitiva innovazione della serie.
Il gameplay di Monster Hunter: World è davvero molto tecnico, e così deve essere per accontentare i numerosi fan di questa serie iniziata dodici anni fa. Si sarebbe potuto però abbinare a questo tecnicismo una mobilità migliore del pg, una mobilità migliore durante gli attacchi, animazioni dei mostri più realistica quando subiscono colpi, ecc. In sintesi, un gameplay che sia si strategico, ma anche più spettacolare a livello visivo e più agevole sia nei comandi che nei menù.
Se God of War ha avuto la meglio su Red Dead Redemption II grazie a una migliore immediatezza, forse Monster Hunter: World è il titolo che più rischiava di non ottenere il posto che si è guadagnato tra i contendenti al premio per il gioco dell’anno.
Menzione speciale va infine a Celeste, titolo indie sviluppato e prodotto da Matt Makes Games. Vincitore del premio per il miglior gioco indipendente, Celeste è un platform a scorrimento 2D che adotta lo stile pixel art, il quale vede una ragazza, Madeline, intenta a scalare il monte Celeste.
Al di là del gameplay semplice ma efficace, la qualità che ha premiato Celeste a The Game Awards 2018 anche come gioco di maggior impatto sta nell’essere un’avventura fortemente metaforica, che va a scavare nella persona della protagonista trattando temi psicologici importanti.
Non mi soffermerò sulla posizione di Celeste in questa lotta per il premio, bensì sul fatto che un titolo indie sia riuscito a entrare in questa contesa. Le vittorie e le candidature di Celeste, unite al successo di altri due titoli indie quali Dead Cells e Return of the Obra Dinn, sviluppati rispettivamente da Motion Twin e 3309 LLC, che hanno vinto i premi come miglior gioco d’azione e miglior direzione artistica arrivando davanti ad altri titoli tripla A, sono la dimostrazione che il budget è sì uno strumento fondamentale per sviluppare videogiochi, ma alla base di tutto ci sono sempre le idee.
Il caso Fortnite
Proprio perché non sarà un premio a decidere il gioco dell’anno, The Game Awards non è l’unica cerimonia videoludica del genere che merita attenzione.
Lo scorso 16 novembre si sono svolti i Golden Joystick Awards, dove i premi vengono assegnati in base a una votazione a cui TUTTI possono partecipare votando sul loro sito ufficiale.
C’è anche un premio della critica, che quest’anno è stato logicamente assegnato a Red Dead Redemption II, ma il premio per il gioco dell’anno 2018 assegnato con la votazione libera per tutti è stato sorprendente, in quanto il vincitore è Fortnite Battle Royale.
Non scriverò tante righe per parlare di questo gioco free-to-play, ma questo evento merita una riflessione.
Fortnite segue il sistema dei giochi Battle Royale che tanto va di moda adesso, e non è neanche un gioco pessimo: artisticamente carino; tante armi, veicoli e altri oggetti da usare; si possono cancellare (parlare di “distruttibilità degli ambienti” è una parola grossa) quasi tutte le strutture di gioco; e si possono edificare velocemente nuove costruzioni utili per le sparatorie.
Il fatto che venga premiato addirittura come gioco dell’anno, però, mi porta a chiedere se qualcuno per le votazioni non si sia organizzato per fare uno scherzo.
Dal mio punto di vista sia di critico che di giocatore, trovo che Fortnite Battle Royale non avrebbe un premio del genere assicurato nemmeno se dovesse confrontarsi solo con i titoli multiplayer che più fanno discutere.
Eppure, anche ai The Game Awards si è aggiudicato il premio come miglior multiplayer, e non posso proporre seriamente una supposizione di malafede per il premio di gioco dell’anno ai Golden Joystick Awards.
Dopotutto, i giocatori casual sono stati anche la vera fortuna della Wii nella passata generazione di console, e il risultato di questa votazione potrebbe simboleggiare che ci saranno sempre e che vogliono, giustamente, essere ascoltati anche loro.
Come detto in precedenza, si discute continuamente se i videogiochi possano anche essere definiti arte, come avviene per il cinema o per i libri, ma non dimentichiamo che il videogioco è prima di tutto un medium di intrattenimento. Allo stesso modo, anche il cinema nacque prima di tutto come medium di intrattenimento, e i film che in genere sbancano al botteghino non sono quelli che poi vinceranno l’Oscar.