Questi fantasmi! Oppure, queste allucinazioni?
La sala è al buio, il palcoscenico anche. Gli spettatori sono in silenzio (incredibilmente e con i telefoni spenti per l’intera durata dello spettacolo), i fiati sono sospesi perché si sta per assistere ad uno dei capisaldi della nostra cultura italiana: non una commedia romantica, non un giallo alla Agatha Christie, non un dramma straccia cuori & anime, ma il tutto si può racchiudere con Eduardo de Filippo e il suo spettacolo “Questi fantasmi!”. Esso ha insita una certa importanza, in quanto fu la prima commedia del teatrante napoletano ad essere rappresentata all’estero, più precisamente a Parigi nel 1955, ma che non fece montare la testa ad Eduardo e lo spinse comunque a continuare ad ambientare i suoi spettacoli nella sua amata Napoli.
Come in tutti i suoi spettacoli, il tutto comincia con il palcoscenico che si mostra al suo pubblico completamente privo di luci: dal teatro nasce la vita? Sembrerebbe proprio di sì, perché in uscita dal teatro si ha come la sensazione di aver aperto una parentesi nella propria vita che si è richiusa, ma che ha lasciato un segno indelebile: una macchia composta a sua volta da piccole macchiette più piccole, che non sono altro se non le emozioni, le risate, le lacrime, gli insegnamenti, lo stupore, la gioia e la tristezza che solamente la dimensione Teatro può lasciare dentro ognuno di noi.
La trama ruota intorno ad una coppia di sposi, Pasquale Lojacono e sua moglie Maria, i quali sono alle prese con un trasloco in una casa (o sarebbe meglio dire una reggia, per le enormi dimensioni) a Napoli: tutto questo concesso da un’inattesa fortuna che Pasquale riceve da un anonimo benefattore che gli permetterà di risolvere improvvisamente tutti i suoi problemi.
Di nascosto dalla moglie, il nostro protagonista si impegna per cinque anni a mostrarsi tutti i giorni canterino e di ottimo umore da tutti i balconi della casa (68 balconi di gorgheggi quotidiani), per sfatare il mito che la casa sia infestata dai fantasmi e da malevole presenze. Del resto della storia non si dirà di più, in quanto vale la pena seguirne lo sviluppo per poi giungere alla fine (ahimè, dal retrogusto un po’ amaro), che non chiarisce completamente i dubbi che gli spettatori possono aver sviluppato durante lo spettacolo, ma spesso lasciare qualche porta aperta è fin una cosa positiva. Incredibilmente convincenti non solo i protagonisti, interpretati da Gianfelice Imparato e da Carolina Rosi (che già hanno ottenuto un vasto ed ampio successo con l’applaudito “Non ti pago”), ma anche gli altri personaggi che riempiono la scena, chi più chi meno, con le loro personalità: lo stravagante quanto mai saggio portiere Raffaele, sua sorella “mezza scema” Carmela e tanti altri che riesco sempre e comunque a strapparci un sorriso, grazie soprattutto all’utilizzo del dialetto napoletano.
Tre atti, che si susseguono l’uno via l’altro con un piccolo intervallo tra il primo e il secondo, con un intermezzo musicale tra il secondo ed il terzo: mai una battuta di arresto, mai un momento di noia o sonnolenza. La scena di Pasquale che dialoga con il suo vicino “’O Professò”, mentre si gode ‘na tazzulella e cafè dopo un pisolino pomeridiano e che svela al dirimpettaio il segreto per preparare un caffè davvero superbo, regala un quadro della Napoli antica e poco attuale (temo) che scalda il cuore e fa sorridere. Diretto magistralmente da Marco Tullio Giordana, regista della Meglio Gioventù e de I Cento passi, lo spettacolo si mostra al Teatro Carignano di Torino dal 18 al 30 aprile, ed è davvero un’occasione unica di vedere (o rivedere) un esempio di Bel Teatro.
Rebecca Cauda