“456”, ritratto di famiglia al vetriolo

Tinello anonimo d’una casa di campagna, un tavolo, sedie e poco più, intorno il buio: è sera, la sera d’una giornata particolare, la madre (Mater), il padre (Pater) e il figlio (Ginesio) s’agitano e s’affannano in attesa di ricevere, nella loro spoglia fattoria, ospiti (per loro) importanti, forse decisivi.
Ripassano la recita che faranno innanzi a loro, provano e riprovano ossessivamente la minuziosa coreografia, declamando più e più volte i dialoghi (stralunati) che devono portare al successo la loro questua: insomma “ha da passa à nuttata”.
“456” è un interno di famiglia con veleno, molto veleno, un ritratto dei nostri giorni, della nostra rabbia e della nostra paura, di un vivere quotidiano segnato dalla nostra piccolezza, dall’invidia e dalle piccole, meschine macchinazioni che ognuno dei protagonisti trama appresso a miserevoli desideri.
E così il trio s’intorcina e s’azzanna intorno al tavolo: fuori c’è la valle, isolata, battuta dai venti (un libeccio fastidioso) come brulle brughiere sortite dai racconti di Cechov, più lontano c’è la Capitale, luogo di vizio e dannazione, e morte. Nessuna fuga è possibile, nessuno può salvarsi: solo la morte, si scoprirà, è la speranza.
Divertente? Non se prendiamo alla lettera la narrazione. Perché, colorato da un linguaggi incredibile (un “gramelot” promiscuo e meticcio, una sorta di Esperanto dei disperati), lo spettacolo ci racconta, nello specchio deformante di questa stralunata famiglia, l’aridità, l’inguaribile miopia del nostro vivere e affannarci appresso alle nostre furbizie, alle nostre conquiste.
“456” fonde con naturalezza e con un realismo quasi allarmante (più che divertente) quell’attesa interminabile, soffocante e insensata, che ricorda Becket (“Aspettando Godot”) o Buzzati (“Il deserto dei tartari”), con il fascino pirotecnico e istrionico di dialoghi deliranti, erratici, alla Peter Sellers.
Qui “Godot” arriverà, ma il finale sarà sorprendente, e insieme prevedibile.
Così come Cetto La Qualunque, questi Mater, Pater e Ginesio, se pur divertono perché irridono e sorprendono con il loro parlato “sui generis”, sono troppo verosimili e vicini a noi e alle cronache quotidiane, al nostro comune vissuto, per non far gorgogliare un riso ahimè molto ma molto amaro.
Si può scegliere, certo, di guardare solo al divertimento.
Ma questa non è satira, è drammaturgia: dalla tessitura geniale di questa strana lingua, alla scenografia così spoglia e così essenziale eppure così funzionale ai deliri del trio; dalla cura meticolosa dei movimenti di scena, al ritmo perfetto di questo motore immobile, in cui nulla realmente accade eppure tutti si agitano.
E infine il tocco epico, da saga familiare, del pentolone che sobbolle sul focolare, in un cantuccio, l’ultimo sugo della nonna (morta da quattro anni) che cova in agguato, quasi fosse il segno che nulla può cambiare, tutto rimane impaludato nel passato, sola certezza (o speranza) è la morte.
“456” va visto, ridendo oppure no (in un certo senso la scelta è volutamente lasciata a noi).
Va visto perché è geniale nel suo reinventare e rappresentarci, perché è testimonianza genuina di chi siamo, come siamo, e (soprattutto) che non abbiamo nessuna di dove andiamo. Forse perché non c’è nessun “luogo” dove andare.
Scritto e diretto da Mattia Torre
Con: Massimo de Lorenzo, Cristina Pellegrino, Carlo De Ruggieri
Teatro Ambra Jovinelli
via Guglielmo pepe 43/47 – Roma
dal 7 al 12 Febbraio
ore 21.00 domenica ore 17.00, lunedì riposo
www.ambrajovinelli.org
Per info e prenotazioni: 06 83 08 26 20 – 06 83 08 28 84
Biglietti: da 17,00 € a 33 € (compresa prevendita)