Discorsi alla nazione, uno spettacolo presidenziale con Ascanio Celestini al Teatro Vittoria
Ascanio Celestini è attore, regista, scrittore, drammaturgo, ma lo si può descrivere semplicemente così: romano, di sinistra. Bisogna riconoscergli che, nonostante la sua talentuosa carriera vada avanti già da parecchi anni, nonostante non abbia problemi a riempire le platee, è rimasto uno di noi; soprattutto se con noi s’intende la periferia a sud di Roma. È una persona aperta, che si incontra facilmente nelle piazze, nei luoghi occupati, con il suo pizzetto inconfondibile e la sua parlantina inarrestabile, sempre pronto a trattare le tematiche politiche e sociali vicine alla gente.
Non è perciò sorprendente, entrando a teatro, vederlo mischiarsi agli spettatori in platea, mentre in sottofondo scorrono le arringhe di un variegato gruppo di politici, tra gli altri: Mao, Craxi, Bush, Khomeyni, Andreotti e, l’immancabile, Berlusconi.
Lo spettacolo non ha neppure un vero e proprio inizio, ad un certo punto, con il suo fare informale, Celestini guadagna il palcoscenico e inizia a recitare una sorta di pezzo introduttivo; solo alla fine dello spettacolo lo spettatore si renderà conto dell’abilità tecnica celata in questo modus operandi.
L’introduzione consiste fondamentalmente nel pezzo “Io sono di sinistra”, abbastanza noto per chi ha familiarità con la produzione di Celestini. È un gioco retorico con cui l’attore, abilmente e ironicamente, smaschera la drammatica meschinità che caratterizza la sinistra italiana, e non solo a livello istituzionale.
Con la formula “Io sono di sinistra, però…” arriva a giustificare le più bieche affermazioni, figlie di un senso comune bigotto, conservatore e, senza dubbio, ideologicamente lontano dalla “sinistra”. A questo punto si entra nel vivo della rappresentazione, ambientata in un ipotetico paese contemporaneo, dove è in atto una guerra civile e cade una pioggia incessante.
In modo surreale, e chiaramente metaforico, sarà la pioggia a dominare i discorsi dei personaggi a cui Celestini darà voce, così come gli ombrelli, più che le armi, rappresenteranno il potere.
Tutti i personaggi sono in attesa, desiderosi, dello stesso avvenimento: la fine della guerra, ovvero il ritorno di un tiranno che spazzi via la pericolosa illusione di democrazia e ristabilisca il “normale” corso degli eventi. Allora si potrà tornare a vivere tranquillamente e, sì, smetterà anche di piovere. Dunque l’attore ci riporta i pensieri, le confessioni, di cinque inquilini di uno stesso palazzo, dislocando le varie personalità sulla superficie del palcoscenico – questo allestito con una scenografia scarna, composta da alcune luci e qualche pannello, ma quasi ingombro per gli standard di Celestini. Ogni condomino presenta se stesso agli spettatori, ci rivela la sua interiorità e la sua quotidianità, patologicamente violente e egoisticamente solitarie; il tutto ben celato sotto uno spesso strato di luoghi comuni, indifferenza e buonismo.
Così Celestini mette a nudo, con maestria, le perversioni della nostra società, perché, nonostante l’assurdità, le confessioni dei protagonisti ci risultano drammaticamente familiari.
A suggellare il tutto è il discorso finale del tiranno, un tiranno senza maschera, che parla francamente ai suoi sottomessi. Questo ci rivela pacatamente il carattere dittatoriale della democrazia, che risulta essere più vicina ad un “gioco delle parti” che ad un “governo del popolo”.
In quest’ultima arringa si coglie nitidamente l’eco di quell’odio verso gli indifferenti, di cui parlava Gramsci; nella rivisitazione di Celestini il discorso è chiaramente portato avanti dal punto di vista del potente in carica e ben altri sentimenti prendono vita. Lo spettacolo si conclude con una sarcastica attestazione dell’inesorabile realtà dei fatti, perché si può anche essere “di sinistra, però…”. Il cerchio si chiude e ci si ritrova sul volto un sorriso amaro.
Anna Dotti
10 ottobre 2013