Il mondo dello spettacolo era in condizioni tragiche già prima del Coronavirus

È notizia di stretta attualità l’occupazione da parte di un gruppo di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo del Globe Theatre di Roma.
Sono rimasto molto colpito dalle richieste di chi protesta perché mi sembra che inquadrino perfettamente il problema. “Non chiediamo la riapertura dei teatri, ma la fine della precarietà”. Così potrebbe essere riassunta la nota che i lavoratori hanno pubblicato sui social.
Le grandi crisi economiche, come quella che stiamo vivendo per effetto della pandemia, ancor prima di innescare nuovi problemi, svelano e amplificano le contraddizioni e i divari già presenti nella società.
Ho fatto esperienza personale di cosa voglia dire lavorare nell’ambito degli eventi, in Italia e in Inghilterra. Due realtà profondamente diverse come certamente potrà confermare chi ha avuto dei trascorsi professionali simili ai miei.
In Italia lo spettacolo è uno dei settori più selvaggi sul piano normativo, dove il nero, specie nelle realtà più piccole e meno controllabili, rappresenta tristemente una prassi comunemente accettata. Per comprendere le ragioni di chi occupa bisogna innanzitutto guardare alle condizioni in cui erano soliti lavorare ben prima che il Covid stravolgesse la vita di tutti. Non è possibile, come ahimè fanno molti, fraternizzare con queste categorie prescindendo da un’analisi seria delle anomalie legali in cui sono costretti a operare, se non simulando un’empatia di facciata che nasconde in realtà la difesa esclusiva dei propri interessi.
Se oggi migliaia di lavoratori si ritrovano esclusi da ogni tipo di ammortizzatore sociale il problema è a monte. Evidentemente i contratti con cui erano stati assunti, quasi sempre la collaborazione occasionale a fronte di un’attività fidelizzata e continuativa, quasi sempre in partita IVA, non erano i più idonei. Se oggi rigger, scaffolder, facchini non hanno tutele è perché semplicemente non le hanno mai avute.
I monologhi di Lodo Guenzi ed Emanuela Fanelli a Sanremo hanno commosso tutti, ma limitarsi a chiedere che riparta la stagione dei concerti e delle piéce teatrali non serve a ridare dignità a lavoratori mortificati più dall’esclusione dallo Statuto dei Lavoratori che dall’elenco delle attività essenziali dei famigerati DPCM.
Le raccolte fondi da parte degli artisti sono un’iniziativa lodevole, ma serve uno sforzo aggiuntivo. È tempo di affrontare il problema alla radice affinché non si presenti identico e puntuale con l’arrivo di un’altra crisi.

Ricordo un intervento di Jovanotti in un’università di qualche anno fa in cui, prendendo ad esempio proprio la realtà dei festival musicali, sosteneva candidamente che quando si è giovani è giusto lavorare gratis perché si viene ripagati dalla possibilità di “vivere un’esperienza”. Ricordo anche uno youtuber di successo prendere in giro chi aveva l’ardire di criticare Jovanotti per quest’uscita infelice. Come se guardare in prima fila, quando ti va bene, un concerto fosse il congruo riconoscimento per avere scaricato per ore box pieni di cavi sotto un sole cocente. La logica per la quale si viene ripagati in esperienza è esattamente la ragione per la quale oggi i lavoratori di un intero settore non beneficiano di alcuna forma di assistenza. Chi lavora 180-200 giorni all’anno, così ho sentito dire qualche cantante, ha bisogno di contratti seri, di diritto alle ferie e alla malattia, di garanzie sulla disponibilità dei DPI. Non di guardare i concerti gratis.
Negli ultimi anni sono successe tragedie che avrebbero dovuto accendere i riflettori su un mondo troppo poco regolamentato e carente sotto il profilo della sicurezza, sia per i lavoratori che per gli spettatori. Era auspicabile che ci si rendesse conto già in quelle occasioni che qualcosa non andava. Gli artisti avrebbero dovuto accorgersi allora che chi allestisce un palco è un lavoratore di serie B. Troppo facile farlo adesso quando loro stessi sono costretti a stare a casa con le mani in mano.
Perché gli artisti non hanno mostrato interesse verso gli addetti ai lavori in circostanze normali pretendendo che venissero assunti con contratti regolari e non veleggiando perennemente nelle torbide acque del freelance e del lavoratore autonomo? Perché non li hanno mai sospinti a riunirsi in associazioni di categoria? Perché non hanno mai favorito la loro organizzazione sindacale affinché potessero essere rappresentati degnamente? L’esperienza dei riders insegna. L’unione nella rivendicazione dei propri diritti era e resta ancora oggi l’unica strada percorribile. La gran parte degli artisti sono dichiaratamente di sinistra. Capisco che le luci dei riflettori puntate in faccia annebbino la vista, ma non notare che sotto il proprio palcoscenico si dimeni una massa di sfruttati è una grave negligenza.
Cerchiamo di trarre del buono da una tragedia epocale. Proviamo una volta tanto ad andare al cuore del problema. Non limitiamoci a mettere una pezza come troppo spesso siamo abituati a fare in questo Paese.
I lavoratori dello spettacolo non chiedono di ricevere un contentino monetario come se fosse la concessione di un sovrano illuminato. Quella sarebbe ancora una volta guardare in prima fila il concerto di Jovanotti. E i lavoratori sono stanchi di guardare i concerti in prima fila. Chiedono diritti. Altrimenti, appena sarà possibile tornare a esibirsi dal vivo, che gli artisti si montino da soli i palchi su cui andranno a suonare.