L’immensità: la presentazione che non c’è, ma una pellicola che fa “rumore”

Emanuele Crialese “avrebbe dovuto” presentare il film sabato scorso al numeroso pubblico in sala al cinema Quattro Fontane di Roma. Ma non l’ha fatto. O meglio, si è affacciato, tra i flash delle fotografe presenti, a bordo schermo, ma non una parola sul perché e per come del film “L’immensità”, di cui – presentato in concorso in anteprima mondiale alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica de La Biennale di Venezia – avrà forse parlato fin qui fino allo sfinimento… Nulla, quindi, sul film da parte del suo creatore. Solo un suo sondaggio in platea, ad alzata di mano, per vedere quanti dei presenti fossero nati nel 1965 e a seguire e che avrebbero quindi potuto ritrovare tante cose nell’affresco, curatissimo, che la pellicola restituisce di certi anni.
La delusione tra gli spettatori era palpabile, e non è restato loro altro che assaporare un film che pecca, forse, di una certa lentezza. E se da un lato non dice, tratteggia, con cautela, l’approccio a certi temi delicatissimi e attualissimi insieme, dall’altro la coinvolgente interpretazione, più che dell’attrice di punta Penelope Cruz, della dodicenne (nel film) alter ego del regista per quanto è il suo portato autobiografico, colpisce lo spettatore con tutta la violenza del suo dolore e della sua impotenza, tutt’altro che inespressi.

In una sua recente intervista rilasciata al Corriere della Sera, però, il regista aveva parlato. Dell’Italia e delle sue leggi, della sua condizione di transgender nel nostro Paese, delle difficoltà, ma della necessità, anche, di fare finalmente questo film “a lungo inseguito”. Anche se ha tenuto a precisare che tutti i film sono in realtà un po’ autobiografici, senza quindi enfatizzare troppo questo aspetto per ”L’immensità, autobiografici come erano state le sue precedenti pellicole, Terraferma e Nuovomondo, “film sulle migrazioni, sulle transizioni, anche da un luogo all’altro”.
Nel cast tre giovani che non avevano mai recitato prima. Il che rimarrà sorprendente per chi vedrà l’ultima scena del film. “Luana, Patrizio e Maria Chiara – ha avuto modo di dire il regista – sono rimasti bambini sempre e come tali sempre intensamente e immensamente veri”. Tra gli attori, oltre alla Cruz (Clara), Luana Giuliani, Vincenzo Amato, Patrizio Francioni, Maria Chiara Goretti, Penelope Nieto Conti. Il soggetto è firmato da Emanuele Crialese e la sceneggiatura da Emanuele Crialese, Francesca Manieri, Vittorio Moroni.
Nella trama del film, in programmazione dal 15 settembre e distribuito in oltre 300 sale da Warner Bros. Pictures, la storia di una coppia, quella di Clara e Felice, appena trasferitasi a Roma negli anni ‘70. Un matrimonio evidentemente finito, l’amore a lasciare spazio al non detto, al rifiuto dei corpi, alla violenza verbale – e a quella dei silenzi, non meno aggressiva – e finanche fisica. Restano insieme, forse anche e soprattutto perché la coppia ha tre figli (che li osservano costantemente) e una di loro, Adriana, Adri, ha evidentemente dei problemi. Non si ritrova nel suo corpo di bambina, non si ritrova nei genitori che “l’hanno fatta così, sbagliata”, crede di essere – non può esserci altra spiegazione – un’aliena. Di fatto per l’epoca forse lo era, gli amici della coppia “li prendono in giro” per quella ragazza che crede di essere un ragazzo, che rifiuta il suo nome, la sua identità, che vuole mostrarsi a tutti come un maschio. Un disagio manifesto che inevitabilmente incrinerà il già fragile equilibrio all’interno della famiglia. E in scena va in crisi anche un certo modello di famiglia. Clara soccombe temporaneamente alla fatica del “far finta di niente”, di ballare e cantare coi suoi figli in casa tra i gesti di una solo apparente normalità (mentre apparecchiano la tavola, ad esempio) di un’esistenza tutta sopra o almeno oltre le righe invece. Ma la figura della “madre” è grande, è lei la fragile epperò la forte, quella su cui riversare la pena sicuri di esseri compresi, quella da scrutare negli occhi “per vedere se ha pianto”, da difendere ed amare tout court. Il “padre” ne esce male, dimostra insensibilità, inconsapevolezza e a lui il regista assegna tutti gli stereotipi possibili legati all’uomo ricco, alla figura del piccolo imprenditore, fino al più odioso che qui non sveliamo per non dir troppo della trama.
L’ambientazione, gli arredi, le macchine usate, gli abiti, i grembiuli degli scolari, i costumi di Carnevale e le acconciature e così i giochi ingenui dei ragazzini, il Natale in famiglia, tutto è disegnato con precisione assoluta. Penelope Cruz dal canto suo dispensa quegli sguardi repentini, intensamente consapevoli, in cui dice tutto, come nell’ultimo scambiato con la figlia prima di vederla affrontare un altro, grandissimo, dolore. Accanto a questo, di effetto le inquadrature così vicine ai volti, la macchina da presa ad avvicinarsi lentamente e a volte zoommare su di essi, sugli occhi. E poi l’originale scelta del regista degli inserti, spezzoni di spettacoli televisivi di quegli anni, rivisitati, con gli attori grandi e piccoli a diventarne protagonisti, i visi delle attrici a sovrapporsi a quelli di Raffaella Carrà, di Patty Pravo. Canzoni note, amate. La musica, la sua capacità evocativa, e l’amore, le sue tante forme, la diversità nell’esprimerlo, robusto sostrato del racconto.
Il cinema è soggettivo. A chi scrive non è sembrato, questo film, ‘immenso’. Ma fa “rumore”, questo sì, e non solo nell’omaggio ad un personaggio televisivo amato. Na na Na na na na
Na na na na na na na na Rumore Rumore…