“Mond”, racconto femminista o dichiarazione di resa?

Martedì 24 giugno, nella cornice del Forum Austriaco di Cultura di Roma è stato proiettato come parte della rassegna “Sotto le Stelle dell’Austria”, “Mond”, opera seconda di Kurdwin Ayub, regista austriaca di origini curde.
L’opera si presenta come un racconto al femminile che sfrutta l’espediente del dramma sportivo applicandovi gli stilemi del film d’autore indipendente per raccontare una storia universale sulla condizione della donna che travalichi i confini del mondo, e se ciò vi appare come un qualcosa di scontato o già visto potreste rimanerne fortemente sorpresi, nel bene o nel male.
We can (not) do it
Sarah (Florentina Holzinger), artista marziale e atleta austriaca ormai al termine della carriera e divenuta insegnante di sport da combattimento, riceve un allettante proposta di lavoro: trasferirsi in Giordania e lavorare per una ricca famiglia locale come personal trainer per le tre sorelle Nour (Andria Tayeh), Fatima (Celina Sarhan) e Shaima (Nagham Abu Baker).
In breve tempo le cose si fanno inquietanti, il contrasto tra la rigidissima educazione di stampo fortemente religioso e patriarcale impartita alle tre sorelle e la vita che una giovane ragazza vorrebbe e dovrebbe vivere, già evidente agli occhi di una donna occidentale ed emancipata come Sarah, si fa ancora più stridente a causa dei comportamenti sospetti e dei segreti che la famiglia sembra tenere, finché la situazione non precipita completamente.
A livello formale “Mond” segue lo stesso copione di molti colleghi della scena indipendente in molte altre parti del mondo: la fotografia è minimale, in alcuni casi completamente buia per esasperare il senso di smarrimento che la protagonista prova costantemente, la colonna sonora quasi completamente assente, e la regia il più delle volte affidata alla camera a mano, ma nonostante l’estrema semplicità tecnica la Ayub riesce comunque a trasmettere pathos e tensione non indifferenti, le quali lasciano presagire un futuro luminoso per l’autrice anche nella scena mainstream, in particolare come autrice di thriller.
Già perché proprio come in un thriller, la regista gioca con i mezzi (pochi) a sua disposizione per costruire una tensione sempre crescente e giungere a una risoluzione finale tutt’altro che scontata, perché di risoluzione non ve n’è alcuna: la pellicola fa in modo di presentarsi come l’ennesima, prevedibile, banale e scontata narrazione di stampo occidentale e femminista su una “salvatrice bianca” che mostra alle giovani straniere sottomesse come combattere e liberarsi dall’oppressore maschio, e proprio quando lo spettatore abbassa la guardia e arriva a sperarci, questa lo colpisce sotto la cintura con una realtà dura e cruda che nessun presunto eroe, cinematografico o meno, potrebbe sperare di cambiare.
Almeno non in quest’epoca.
Cause i may be bad, but i’m perfectly good at it
A far funzionare questa storia è soprattutto la sua protagonista, dal cui punto di vista osserviamo l’intera vicenda.
Sarah è una sportiva, una combattente abituata a dolore, sopravvivenza e sacrificio, che quando ci viene presentata si trova nel momento più buio e di maggior sconforto della sua vita, o almeno di ciò è convinta: le inquadrature ravvicinate e strette e il montaggio frenetico e frammentato ci fanno entrare nella sua quotidianità soffocante ed alienante, per poi precipitarci in un ambiente completamente diverso da quello cui siamo abituati e nel quale come lei siamo totalmente smarriti, e infine porci davanti ad una situazione di estrema iniquità, alla narrazione del forte che prevarica sul più debole, qualcosa che soltanto un eroe (o in questo caso un’eroina), uno di quelli cui ci ha abituato la narrazione mainstream occidentale, potrebbe in qualche modo ribaltare.
Insomma ci sono tutti i presupposti per una storia di rinascita e liberazione, popolata da personaggi tormentati che ritrovano il loro posto nel mondo e la forza di rialzarsi quando cadono sotto i colpi dell’avversario, di ribellarsi al loro oppressore travolgendo noi spettatori con un’onda di fomento.
Ma a Kurdwyn Ayub interessa raccontare la realtà, e tutto questo nella realtà non esiste: la realtà è fatta di delusioni, sconfitte, sistemi iniqui che nessuna persona da sola potrebbe cambiare armata solo della sua volontà, e le persone reali spesso non riescono a risolvere tutti i loro nodi perché la sceneggiatura lo richiede, anzi spesso vanno avanti con più dubbi e domande di prima.
Mesi fa vi abbiamo parlato de “Il Mohicano” di Frederic Farrucci, che sullo sfondo della Corsica raccontava una storia universale, la quale trovava possibili analoghi in ogni parte del mondo, anche in Italia.
Nella stessa maniera “Mond” di Kurdwyn Ayub usa la storia di un’artista marziale austriaca e del suo viaggio in Giordania per raccontare il fallimento dell’eroe occidentale, la fragilità di un progressismo che spesso diamo troppo per scontato, la fallibilità di una donna che non è un’eroina, e per ricordarci che nella vita vera quando qualcuno viene colpito spesso, troppo spesso, resta a terra.