Eaton e l’India nell’era persiana

Richard M. Eaton (1940) è uno dei più stimati islamisti e storici dell’Asia Meridionale moderna al mondo. Ha costruito la sua fama nel corso di quasi cinquant’anni di carriera e, grazie a un vasto corpus di studi, ha fatto luce su ampi aspetti della vita degli indiani tra il 1000 d.C. circa e la fine del XVIII secolo. Mentre i suoi primi lavori si sono concentrati sulle comunità sufi nell’India centrale (Sufis of Bijapur, 1300-1700, Princeton University Press: 1978), a partire dagli anni Novanta la sua attenzione si è spostata sulle interazioni tra musulmani e non musulmani (The Rise of Islam and the Bengal Frontier, 1204-1760. Oxford University Press: 1993): il risultato degli ultimi decenni è stato infatti la pubblicazione di volumi – sia a firma singola che in coedizione – su temi diversi come la distruzione dei templi (“Temple Desecration and Muslim States in Medieval India”, Journal of Islamic Studies 11:3 (2000) pp. 283-319), l’intersezione tra politica, memoria e architettura (Firuzabad: Palace City of the Deccan. Oxford University Press: 1992, Power, Memory, Architecture: Contested Sites on India’s Deccan Plateau, 1300-1600. Oxford University Press: 2014), la schiavitù e la servitù (con Indrani Chatterjee Slavery and South Asian History. Indiana University Press: 2006) la storia sociale del Deccan (Social History of the Deccan, 1300- 1761 0 Eight Indian Lives. Cambridge: Cambridge University Press, – published: 2000 (The New Cambridge History of India. I.8,) e il posto dell’Asia meridionale nella Storia mondiale (Essays on Islam and Indian history. Oxford University Press: 2000.) L’ultima proposta di Eaton , L’India nell’Era persiana. Dall’anno Mille ai Moghul (India in the Persianate Age, 1000-1765), edito per Hoepli, attinge quindi ad anni di riflessioni sulla vita degli abitanti dell’Asia meridionale nel periodo medievale/pre-moderno/inizio-moderno/pre-coloniale. Questo volume è una preziosa aggiunta a un corpo emergente di libri leggibili e ricchi di testo – primo fra tutti India before Europe (Cambridge University Press: 2001) di Catherine B. Asher e Cynthia Talbot – e mira a coinvolgere specialisti e non esperti in uno dei periodi più avvincenti, consequenziali e controversi della lunga storia dell’India.
Un particolare aspetto relativo allo sviluppo della storiografia dell’Asia meridionale del quale gli studiosi contemporanei si rammaricano profondamente, è che la lettura del passato attraverso il prisma della religione. Le ragioni di tale evoluzione sono molteplici. I cronisti persiani del periodo 1000 e 1750 tendevano ad avere una visione del mondo in termini di musulmani e indù; gli storici britannici che seguirono James Mill (1773-1836) nella sua The History of British India (1817) divisero la storia della regione in periodi indù, musulmano e britannico; una classificazione che si è rivelata oltremodo influente nel campo degli studi storici indologici. I britannici che governavano l’India, come rivelano le loro gazzette e i loro censimenti, dividevano anch’essi la sua società per religioni; i grandi movimenti politici dell’epoca coloniale, la dimensione nazionalista indù del Congresso e la Lega musulmana di tutta l’India, attinsero al passato specificamente indù e musulmano per rafforzare i loro sforzi attuali. I moderni Stati dell’India, del Pakistan e del Bangladesh, emersi da questo periodo, fanno lo stesso.
Tra i motivi di rammarico per l’inquadramento religioso del passato dell’Asia meridionale vi è innanzitutto il fatto che esso ha contribuito in modo sostanziale alla comunitarizzazione della politica: ha giocato infatti un ruolo significativo nella Partizione dell’India. A partire da quel momento, questa comunitarizzazione, ha fatto sì che si irrigidissero gli atteggiamenti dell’India verso il Pakistan e viceversa, svolgendo un ruolo significativo nell’ascesa del nazionalismo indù nel dominio della politica indiana. In secondo luogo, l’inquadramento religioso ha prodotto grossolane distorsioni della storia; la verità è che il mondo indù e quello musulmano, lungi dall’essere separati, distinti e perennemente ostili l’uno all’altro, erano invece interdipendenti, attingevano liberamente ai rispettivi simboli di potere e autorità e si appoggiavano alle diverse competenze che ciascuno aveva da offrire. La risposta di Richard Eaton al problema dell'”inquadramento” è ispirata dal sanscritista Sheldon Pollock (1948), che ha coniato l’espressione “Cosmopoli sanscrita” (come in The Language of the Gods in the World of Men: Sanskrit, Culture and Power in Premodern India. Berkeley:
University of California Press, 2006), per descrivere la vasta area dell’Asia meridionale dal IV al XIV secolo in cui le idee sviluppate nei testi sanscriti circolavano al di sopra dei confini delle lingue vernacolari, dei gruppi etnici e delle regioni. I testi sanscriti portavano con sé le conoscenze e i valori dell’alta civiltà, dalla grammatica all’architettura, da come comportarsi a come governare, da come regolare la società e così via, generando valori, stili e idiomi condivisi. Questa formulazione ha incoraggiato Eaton a proporre una seconda formazione culturale che dall’XI al XIX secolo ha abbracciato gran parte dell’Asia occidentale, centrale e meridionale: l’età persiana. Confrontando il mondo persiano con la cosmopoli sanscrita, Eaton afferma: “Entrambi si sono espansi e sviluppati ben oltre la loro terra d’origine, conferendo loro una qualità transregionale e “senza luogo”.
Entrambi erano fondati su una lingua e una letteratura di prestigio che conferiva uno status d’élite ai suoi utenti. Entrambi articolavano un modello di potere mondiale, in particolare di dominio universale. E mentre entrambi elaboravano, discutevano e criticavano le tradizioni religiose, nessuno dei due si fondava su una religione, entrambi piuttosto trascendevano le pretese di una qualsiasi di esse. Svincolate da particolari sistemi religiosi, entrambe queste tradizioni transregionali poterono e si diffusero su grandi estensioni di territorio e furono abbracciate da popoli di varia estrazione etnica e religiosa. (pp. XXII-XXIII). Il mondo persiano diventa quindi il nuovo strumento di inquadramento. “Gran parte della storia dell’India tra il 1000 e il 1800 più essere compresa in termini di una prolungata e sfaccettata interazione tra il mondo sanscrito e il mondo persianate.” (p. XXIII) ci dice Eaton; cosa comporta la sua riformulazione per la storia dell’Asia meridionale? Fondamentalmente una storia che pone l’accento sull’interdipendenza e la
compenetrazione del mondo persiano e di quello sanscrito, in parole povere, del mondo musulmano e di quello indù. In effetti, l’autore si diletta con i numerosi esempi che porta alla nostra attenzione; significa anche reinterpretare comportamenti ed eventi. Per esempio, si riteneva che quando i turchi Ghuridi, nei loro attacchi alla regione di Delhi, profanavano i templi dei sovrani indù e portavano via i loro idoli, questi turchi musulmani fossero impegnati in un’iconoclastia a sfondo religioso. La comprensione cambia però quando la pratica viene collocata nel contesto della cosmopoli sanscrita: le forze ghuridi si comportavano esattamente come i governanti indiani quando sconfiggevano i re rivali, distruggendo i loro templi e i loro idoli, separando così il rivale dai segni più visibili della sua sovranità.
Alla base dell’India nell’età persiana vi sono tre intuizioni fondamentali: l’India prima del dominio britannico era straordinariamente dinamica; l’India precoloniale era interconnessa in molteplici modi con il mondo circostante (Asia centrale e occidentale, Cina, Asia sud-rientale); l’India era il luogo di un incontro immensamente fruttuoso tra due potenti formazioni culturali, una “persiana”, che si estendeva verso est dal Medio Oriente, e l’altra “sanscrita” (nella formulazione di Eaton), originaria del mondo indiano. La posta in gioco intellettuale per la comprensione della storia dell’India da parte di Eaton è quindi assai importante: da un lato, egli sfida direttamente le opinioni popolari e profondamente radicate che caricano il periodo come segnato da cicli infiniti di conflitti tra indù e musulmani, che dipingono la “dominazione musulmana” come una rottura epistemica rispetto a una precedente “età dell’oro” indù, che ritraggono la stasi economica, politica e culturale che travolge l’India dopo l’anno 1000 e che rappresentano l’India come impegnata in un arroccamento difensivo nei confronti dei suoi vicini violenti e sfruttatori a ovest fino all’inizio redentore del dominio coloniale britannico. A un altro livello, tuttavia, Eaton offre una storia dell’India positiva, affermativa e attiva, sensibile ai cambiamenti nel tempo, che prende in considerazione diversi aspetti storici e geografici e che, in generale, evita di fare affermazioni
totalizzanti. Ed è qui che risiede la più grande virtù dell’India nell’età persiana. Dopo aver sottolineato nell’introduzione le polemiche contro cui sta lavorando, la visione di Eaton, che vede i mondi persiano e sanscrito sempre più intrecciati come asse centrale della storia indiana precoloniale, prende il volo. L’India nell’Era persiana si apre con la discussione di due devastanti incursioni, nel 1022 e nel 1025, nell’India settentrionale. La prima fu compiuta da una dinastia indù dell’India meridionale, i Chola. La seconda da una dinastia musulmana e turca, i Ghaznavidi.
Entrambi erano alla ricerca di ricchezza, nessuno dei due era interessato a un’occupazione permanente, ed entrambi si impegnarono in tattiche simili, tra cui la distruzione dei templi e altre forme di iconoclastia. Nonostante queste somiglianze, l’autore sostiene che queste spedizioni erano informate da visioni del mondo politiche, marziali e religiose fondamentalmente diverse. Nel caso dei Chola, essi attingevano a idee emanate da una cosmopoli sanscrita esistente che si estendeva tra l’Asia meridionale e sudorientale. I Ghaznavidi, invece, facevano parte di un mondo turco-persiano emergente che si estendeva dall’Altopiano iranico all’Anatolia. Sebbene i Chola e i Ghaznavidi non si siano mai incontrati, la separazione tra il mondo sanscrito e quello persiano stava per finire. Il catalizzatore fu la decisione dei Ghaznavidi di spostare la loro base operativa principale da Ghazni alla città di Lahore (nell’attuale Pakistan), in seguito alle irrimediabili sconfitte subite per mano dei loro cugini Selgiuchidi e Qarakhanidi in Iran e in Asia centrale negli anni intorno al 1040. Anche se i Ghaznavidi si adattarono all’ambiente indiano, come dimostra l’emissione di monete con legende miste arabe e sanscrite, applicarono anche pratiche, ideali e istituzioni persiane in tutto il loro regno.
Questi processi si intensificarono nei secoli successivi, quando ondate di turchi e “afghani” persiani
superarono i Ghaznavidi ed espansero il loro controllo su gran parte dell’India settentrionale e centrale. Questi gruppi dominanti successori e gli immigrati acculturati in modo analogo (tra cui molti iraniani) che seguirono la loro scia crearono burocrazie nascenti modellate sui precedenti modelli imperiali persiani, imitarono gli ideali esistenti di regalità musulmana, sostennero la cultura letteraria e materiale persiana e patrocinarono i carismatici shaikh sufi e i loro ordini religiosi. Nel XV secolo le norme persiane esercitavano un’attrazione familiare e potente in gran parte del subcontinente indiano. Lo testimonia l’esempio di Vijayanagara, un regno non musulmano che dominò l’India meridionale per due secoli a partire dalla metà del 1300.
Nella misura in cui il culto statale dei Vijayanagara era incentrato su Virupaksha (una forma locale della divinità indù Shiva), le sue istituzioni politiche e il suo atteggiamento culturale furono profondamente influenzati dagli ideali e dagli idiomi persiani. Qualunque fosse il loro ruolo nella diffusione dei costumi persiani, i turchi persianizzati, gli “afghani” e i loro alleati erano consapevoli di essere una piccola minoranza e che il loro mantenimento dipendeva dalla cooperazione di una popolazione a maggioranza non musulmana con radici nel mondo sanscrito. Nel corso dei secoli, l’accomodamento assunse molte forme: alleanze politiche e militari, legami biologici e di parentela, sovvenzioni fondiarie e finanziarie, opportunità di lavoro, patrocinio culturale e religioso, libertà di conversione, solo per citarne alcune. Questo era un mondo, come descritto in modo suggestivo da Eaton, in cui un sovrano musulmano poteva installare un pilastro di Vishnu nel cortile della sua principale moschea di congregazione (Iltutmish, m. 1236), ricevere il titolo sanscrito di Nayaka Shri Hammira o Signore Comandante (Balban, m. 1286), permettere che i progetti dei templi indù influenzassero la costruzione delle moschee (Qutb al-Din Khalji, m. 1320), o utilizzare le porte rituali indù (torana) per incorniciare una piazza pubblica e ordinare che gli editti imperiali fossero scritti in sanscrito (Muhammad bin Tughluq, m. 1350). Queste tendenze erano ancora più pronunciate nei regni regionali che seguirono il crollo dell’Impero Tughluq, con base a Delhi, alla fine del 1300. Anche in questo caso, Eaton illustra bene il suo punto di vista utilizzando un
variopinto gruppo di personaggi, tra cui Mahmud Shah Khalaji di Malwa (m. 1469), Zain al- ʿAbidin del Kashmir (m. 1470) e Mahmud Begada del Gujarat (m. 1511), tutti mecenati esemplari di opere sanscrite. Nel caso dei sultani del Bengala, essi si lavavano persino con l’acqua santa del Gange al momento dell’incoronazione, riprendendo le usanze dei precedenti governanti indù.
Secondo Eaton, uno degli sviluppi chiave del XV secolo fu l’emergere di uno spazio pubblico e vernacolare grazie all’aumento dell’uso della carta, al crescente utilizzo delle lingue regionali nell’amministrazione e ai movimenti devozionali popolari che utilizzavano la poesia e il canto nelle lingue locali per esprimere la devozione religiosa. Tuttavia, come mostra Eaton, né il persiano né il sanscrito furono soppiantati da questo sviluppo: al contrario, sia i re che i proprietari terrieri, i mercanti e gli amministratori in ascesa continuarono a patrocinare il persiano e il sanscrito per acquisire prestigio e status. Nel caso del persiano, l’ascesa dei regni regionali non solo portò a una crescente popolarità della lingua al di fuori dei vecchi centri imperiali dell’India, ma anche a una crescente infiltrazione del vocabolario persiano in lingue come la hindavi, il gujarati, il marathi, il bangla e il telugu. Questi sviluppi, a loro volta, hanno generato un ulteriore intreccio di ideali e idiomi persiani e sanscriti, come testimoniato dal genere letterario vernacolare premakhyan di Awadh o da opere come l’adattamento in Telugu della metà del XVI secolo di una parte del Mahabharata, scritto da un autore brahmanico su commissione di un mecenate musulmano e ispirato all’epica persiana dell’XI secolo di Firdawsi, lo Shahnama.
Quando i Moghul arrivarono a dominare tutta l’India settentrionale, a partire dal 1560, operavano in
un mondo persiano e sanscrito fortemente mischiato. In una visione innovativa del regno dell’imperatore Akbar (m. 1605), l’autore sostiene che molte delle sue azioni più note – come forgiare un’alleanza Moghul-Rajput, creare una nobiltà multiculturale, offrire protezione religiosa ai suoi sudditi, posizionarsi come re sacro, articolare nuovi ideali e rituali di corte, riorganizzare le pratiche di successione, creare nuovi stili di arte e architettura, ecc. Questo punto è illustrato meglio che nella discussione di Eaton sui molteplici filoni che informavano la visione di Akbar del suo governo: in diversi momenti della sua carriera, quindi, “Akbar si era poi presentato di volta in volta come un maestro sufi, un’emanazione solare e perfino divina, un rinnovatore del secondo millennio islamico, un principe timuride e un sovrano indiano tradizionale.” (pp. 227-228). Sebbene i successori immediati di Akbar, Jahangir (m. 1627), Shah Jahan (m. 1666) e ʿAlamgir Aurangzeb (m. 1707) si distanziarono ampiamente dagli aspetti cultuali del regno di Akbar, tutti assunsero la necessità di un idioma di governo che accogliesse la diversità culturale e religiosa dell’India insieme alla loro partecipazione a un mondo turco-persiano. Così, anche se Shah Jahan fu uno straordinario mecenate delle lettere persiane, permise anche ai suoi figli Dara Shukoh e Jahanara di utilizzare traduzioni in persiano di testi sanscriti per sostenere le risonanze tra l’Islam e l’induismo vedico. Nel caso di Aurangzeb, egli non vedeva chiaramente alcuna contraddizione tra l’imposizione- nel 1679 –
di una tassa sul voto ai non musulmani (jizya) e il fatto di continuare a sostenere i templi indù con sovvenzioni in denaro e/o in terra, incontrando i mendicanti indù o permettendo ai sostenitori non
musulmani di lodarlo come incarnazione della divinità indù Rama. Come giustamente sottolinea Eaton, il crollo politico dei Moghul all’inizio del XVIII secolo non diminuì l’attrattiva del mondo persiano o il desiderio degli indiani di parteciparvi. Anzi, gli Stati successori dei Moghul furono spesso entusiasti patrocinatori dell’apprendimento sia persiano che sanscrito: a Jaipur, per esempio, nel 1720 questo portò alla traduzione di Nasir al-Din Tusi, Tolomeo ed Euclide dal persiano, attraverso l’Hindavi (antenato della Hindi/Urdu), al sanscrito. Alla fine, però, come nota l’autore nella sua conclusione, l’ascesa del dominio coloniale britannico in India e del nazionalismo in Iran e l’invasione da parte dei vernacoli indiani degli spazi culturali un tempo occupati dal sanscrito e dal persiano ebbero risultati conseguenti. Il declino dell’uso della lingua portò a una precipitosa recessione dei valori, sentimenti e idee che erano alla base del mondo persiano e di quello sanscrito.
Questo, a sua volta, fece crollare un ecosistema di interazioni tra persiano e sanscrito che aveva attraversato quasi mille anni.
La cornice persiana di Eaton contribuisce quindi a sottolineare le connessioni tra l’Asia meridionale e il mondo turco-persiano: ad esempio egli chiarisce come il sultano Firuz Bahmani si prefiggesse di persianizzare la sua corte, inviando ogni anno navi nel Golfo Persico per reclutare studiosi, amministratori, soldati e artigiani di lingua persiana. Costruì una nuova città-palazzo, Firuzabad, che avrebbe imitato la visione estetica di Timur nel suo Palazzo Bianco (Aq Saray) a Shahr-i Sabz, a sud di Samarcanda. Il processo di copiatura si spinse fino al punto di collocare una coppia di leoni sui pennacchi della porta occidentale di Firuzabad, come Timur li aveva collocati sui pennacchi del suo Palazzo Bianco. Questo è solo un esempio della moltitudine di influenze e di persone che si riversarono nel Deccan in quel periodo; fino al XIX secolo si verificò un analogo movimento di persone e idee nell’India settentrionale. L’autore non lascia dubbi sul fatto che la comunità straordinariamente eterogenea che si riuniva alla corte Moghul e ai suoi successori provenisse da tutto il mondo persiano. Stranamente, però, non fa riferimento a due delle eredità più sostanziali che lasciarono in Asia meridionale, ovvero il trasferimento di competenze di alto livello in ma′qulat, (le scienze razionali) dall’Iran e dall’Asia centrale all’India settentrionale, creando le basi per il Dars-i- Nizami, il programma di studi, o meglio il modo di insegnare, che ha dominato l’istruzione nelle madrase fino a oggi; la creazione di diverse potenti corti sciite, tanto che la regione è diventata, dopo l’Iran, il più potente centro dello Sciismo Duodecimano nel mondo.
Infine (e questo non ha tanto a che fare con l’inquadramento persiano di Eaton quanto con la sua qualità di storico) il testo è ricco di immagini potenti e conclusioni significative. Ci viene ricordato che le invasioni dei Ghuridi aprirono opportunità economiche ai mercanti indiani in Medio Oriente, e che queste stesse invasioni accelerarono il declino del buddismo. C’è una costante consapevolezza dell’importanza del mercato del lavoro militare che ha caratterizzato l’Asia meridionale dal XV al XIX secolo; associata a questo mercato del lavoro, c’è un’affascinante sezione sull’emergere dell’idea di Rajput, inizialmente una categoria aperta che solo in un secondo momento è stata martirizzata in clan con genealogie ed eroi guerrieri. Non meno affascinante è la storia della rivoluzione militare portata nel Deccan dalla tecnologia della polvere da sparo: a differenza di gran parte del resto del mondo, a causa della topografia del Deccan e dell’innovazione tecnologica sia nelle armi che nella progettazione dei forti, l’introduzione della polvere da sparo avvantaggiò i difensori rispetto agli attaccanti. Eaton si diletta poi a parlarci dei dizionari persiani, molti dei quali all’epoca erano prodotti in Asia meridionale più che in Iran.
L’India nell’età persiana è dunque un libro profondamente coinvolgente, erudito e ben scritto. Il suo
tentativo di collocarsi a cavallo tra pubblico accademico e non accademico è in gran parte riuscito.
Tuttavia, resta un importante interrogativo circa l’uso del termine “persiano”. Facendo eco al lavoro del compianto Shahab Ahmed, per esempio, fino a che punto il termine “persianico” (persianate) offusca altri elementi generativi del paradigma, come l’indiano o l’arabo, alimentando al contempo letture nazionaliste “persiane” della storia e idee di eccezionalismo “persiano”? Questo, a sua volta, ha portato a una certa inquietudine sul tracciamento delle linee di demarcazione tra i mondi “persiano” e “sanscrito”, se i frequenti riferimenti di Eaton all’ibridazione presuppongano in modo impreciso dei “confini di civiltà” completamente formati (riecheggiando un’argomentazione simile contro la parola “sincretismo” quando si parla di incontri tra indù e musulmani), e che cosa (se c’è qualcosa che riguarda il mondo persiano emergente nel subcontinente indiano) si distingue dalle sue controparti persiane a Occidente (come nel caso dell’Anatolia)? In modo analogo, l’uso occasionale di “Indico” come complemento di “Persianico” solleverà probabilmente domande sul significato di questo termine. È un sostituto di “indù” e/o “sanscrito”? O è qualcosa di più ampio? E dove si collocava il mondo vernacolare nello schema del persianico e del sanscrito? Seguendo il lavoro di Sheldon Pollock sulla Cosmopoli sanscrita, il subcontinente indiano dopo il 1000 non era forse sempre più la casa di tre mondi, che simultaneamente interagivano, si influenzavano e si alimentavano a vicenda? Se così fosse, sebbene si faccia riferimento all’ascesa dei vernacoli indiani, si tratta di un mondo che rimane poco analizzato in relazione al mondo turco-persiano o a quello sanscrito. In effetti, l’uso di “persianate” nel titolo originale del libro (che spesso nella traduzione, quando non reso con il suddetto neologismo “persianico”, è lasciato in originale) potrebbe non catturare a sufficienza i molteplici mondi culturali intrecciati che l’autore indica con tanto successo.
In fin dei conti, i libri ambiziosi si prestano quasi sempre a molte domande. Anche l’India nell’età persiana lo fa. Ma offre anche meravigliosi scorci su un mondo che esisteva prima che i filtri grossolani del nazionalismo religioso e secolare lo cancellassero in gran parte dalla nostra visione contemporanea. In definitiva, già l’uso di questo titolo, è sufficiente per apprezzare e imparare da quest’opera.