Il nucleare israeliano è il segreto peggio custodito del Medio Oriente

Nel cuore del deserto del Negev, circondato da silenzio e segretezza, si trova uno dei segreti peggio custoditi del mondo: il reattore nucleare di Dimona. È qui che si annida il fulcro della potenza atomica israeliana, un arsenale mai ammesso ma largamente riconosciuto da esperti e servizi di intelligence internazionali. Israele, da decenni, si muove nell’ombra della cosiddetta “ambiguità strategica”: non conferma e non smentisce, ma intanto mantiene saldo uno dei deterrenti più sofisticati e controversi del pianeta.
Secondo il Trattato di non proliferazione nucleare, solo cinque Stati sono ufficialmente riconosciuti come “dotati di armi nucleari”, e, segnatamente, si tratta di Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina, vale a dire tutti Paesi che avevano già condotto dei test nucleari prima del 1967; Israele non è tra questi, né ha mai aderito al trattato, e quindi, almeno ufficialmente, non possiede armi nucleari, ma ufficiosamente, la storia è ben diversa.
A partire dagli anni ’50, sotto la guida del futuro Nobel per la pace Shimon Peres, Israele avviò un programma nucleare in collaborazione segreta con la Francia: il risultato di questa collaborazione è un reattore segreto a Dimona, con un piano a due vie – una civile e una militare – e un arsenale che, secondo le stime più accreditate, oscillerebbe oggi tra le 80 e le 200 testate nucleari.
In ambito militare si parla della “Opzione Sansone” per descrivere la dottrina nucleare israeliana: se il Paese dovesse trovarsi sull’orlo della distruzione, reagirebbe con una forza tale da trascinare con sé anche i suoi nemici, per cui sembrerebbe proprio il caso di dire “muoia Sansone con tutti i filistei”. Israele ad oggi non ha mai testato ufficialmente una bomba atomica, eppure nel 1979 un satellite americano rilevò un’esplosione sospetta nell’Oceano Indiano che molti analisti attribuiscono a un test congiunto tra Israele e il Sudafrica.
La strategia israeliana relativa al nucleare dunque si fonda su tre principi: ambiguità, deterrenza e contro-proliferazione.
L’ambiguità serve a evitare una corsa agli armamenti in Medio Oriente, mantenendo intatto il potere dissuasivo dell’arsenale nucleare senza le possibili conseguenze diplomatiche di un’eventuale dichiarazione ufficiale. La deterrenza garantisce sicurezza in un’area geografica ostile, mentre la contro-proliferazione giustifica eventuali attacchi preventivi — come quelli contro le centrali nucleari in Iraq e Iran — per impedire che altri si dotino dello stesso potere distruttivo, rendendo così Israele il marchese del Grillo mediorientale. Il paradosso è evidente. Israele è tra i più accesi oppositori del programma nucleare iraniano, ritenuto pericolosamente vicino a scopi militari, eppure lo stesso Israele rifiuta qualsiasi forma di ispezione internazionale sul proprio programma. Il doppio standard irrita parte della comunità internazionale e, secondo alcuni esperti, rischia – ora più che mai – di avere l’effetto opposto, e cioè di spingere l’Iran a volersi armare davvero, come forma di autodifesa.
Diversi esperti hanno definito l’ambiguità israeliana “una negazione incredibile”, mentre altri – tra cui il SIPRI (Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma) e la Federation of American Scientists – concordano sul fatto che Israele abbia un arsenale pronto da decenni, e sarebbe disposto a usarlo come ultima risorsa.
L’unico momento in cui il velo – già trasparente – che copriva il nucleare israeliano è stato davvero sollevato è nel 1986, quando Mordechai Vanunu, ex tecnico di Dimona, rivelò al Sunday Times che Israele possedeva un arsenale nucleare. Vanunu fu – democraticamente – rapito dal Mossad, processato e condannato a 18 anni di carcere per spionaggio e alto tradimento, gran parte dei quali trascorsi in isolamento, assurgendo così a figura controversa e contesa tra chi lo considera un traditore e chi lo vede come un eroe della trasparenza.
Israele perciò continua a camminare sul filo del rasoio: il suo arsenale nucleare, ufficialmente inesistente, resta uno dei pilastri della sua strategia di sopravvivenza, anche se, in un Medio Oriente sempre più instabile, l’ambiguità potrebbe non bastare più.
La domanda torna allora a farsi urgente: è possibile costruire la pace su un segreto che tutti conoscono, ma che nessuno può discutere?