I musulmani dell’Italia medievale
Questo libro di Alex Metcalfe, studioso delle relazioni politico-culturali tra Mondo arabo-islamico e cristiano nell’Italia meridionale e nel Mediterraneo centrale medievali, nonché Senior Lecturer alla Lancaster University (https://www.lancaster.ac.uk/history/about/people/alex-metcalfe), uscito in Inglese per la Edinburgh University Press nel 2009 (The Muslims of Medieval Italy) con, come tema, i musulmani in Sicilia e nell’Italia meridionale tra l’800 e il 1300, è finalmente disponibile per i lettori di lingua italiana per i tipi di Officina di Studi Medievali. Dopo una puntuale presentazione di Ferdinando Maurici, medievista e funzionario della Regione Sicilia, il libro inizia con la lenta e incompleta conquista musulmana della Sicilia nel IX secolo, passando per la crisi dinastica che segnò il destino del Regno normanno di Sicilia alla fine del XII secolo e la presa di potere degli Hohenstaufen con Federico II, per poi terminare con la svolta “feudale” degli Angioini. Nei capitoli III e IV il lettore sperimenta, tra l’altro, gli stretti legami tra l’Ifriqiya e la Sicilia, non solo nel X secolo, quando la seconda era una colonia della prima, ma anche nel XII, quando i Normanni utilizzarono la loro base siciliana per estendere il controllo, per quanto breve, sulla costa tunisina. L’obiettivo principale dell’indagine di Alex Metcalfe è comunque il ruolo centrale che i musulmani giocarono in Sicilia e in alcune parti dell’Italia meridionale durante il passaggio tripartito dal dominio “greco-bizantino” a quello arabo-musulmano e a quello cristiano latino. Dimostrando di comprendere l’importanza dell’analisi contestuale, Metcalfe inizia fornendo un’eccellente introduzione storica alla conquista musulmana della Sicilia, avvenuta in modo frammentario nell’arco di 70 anni, a partire dall’827 d.C.. L’occupazione della Sicilia era un obiettivo politico deliberato del regime islamico del Nord Africa – la dinastia degli Aghlabidi – che voleva creare una colonia araba come contrappunto alle tribù musulmano-berbere (percepite come indisciplinate) che dominavano la sponda meridionale del Mediterraneo. L’assioma della tesi di Metcalfe è che l’obiettivo di ritagliare questa colonia dall’indebolito Impero romano d’oriente non era un attacco religioso ai cristiani o al cristianesimo in quanto tale, ma un’impresa interamente geopolitica ed economica. Egli sostiene che i contemporanei compresero questo fatto come parte della politica regionale dell’epoca e lo dimostra trattando i complicati ruoli svolti dai collaboratori e dai convertiti cristiani nella conquista araba. La sonnolenta città di provincia di Palermo fu occupata prima delle principali città della costa orientale e, di conseguenza, divenne la capitale della Sicilia islamica. Spopolata durante il declino degli imperi romano d’occidente e poi d’oriente (bizantino), le varie guerre e pestilenze e la stessa invasione islamica, la città e la regione furono colonizzate e sviluppate con successo tanto da intraprendenti coloni arabi e berberi quanto da convertiti locali: Palermo prosperò e fiorì sotto gli arabi per 250 anni, restando al centro del potere politico e divenendo nota come “La Città” (al-Madīna, unica altra ad essere definita così insieme a Medina appunto, “la Città del Profeta”, Madīnat al-Nabī). Ricorda l’autore che la società musulmana dominava numericamente e culturalmente il nord e l’ovest dell’isola, mentre una minoranza cristiana persisteva a est, nelle città portuali e nei distretti proiettati sul Mediterraneo orientale. Dal punto di vista linguistico, l’intera isola sembra essere passata all’arabo abbastanza rapidamente. Un affascinante diversivo che l’autore esplora (pp. 25-29) è il breve Emirato di Bari (847-871), oggetto di uno studio fondamentale del fu Giosuè Musca (L’Emirato di Bari 847-871, 1964, ristampato quest’anno sempre per la Dedalo). Questo, come molti altri simili, venne creato interamente da bande di mercenari e pirati provenienti dalla Sicilia musulmana, piuttosto che da un deliberato sforzo politico degli Aghlabidi (la cui attenzione rimase sempre sull’isola stessa). Furono questi Stati guerreschi, spesso alleati a signori della guerra locali e facenti base sulle coste meridionali dell’Italia al di fuori di ogni reale autorità del Califfo o del Dār al-Islām, a guadagnarsi l’aspra recriminazione degli scrittori latini dell’epoca. Almeno nel primo secolo, si trattava di empi saraceni che attaccavano Roma, piuttosto che di coloni agricoli musulmani o di potenze islamiche della Sicilia. La Sicilia musulmana dei primi anni è stata tuttavia caratterizzata da una cattiva amministrazione. Sebbene la legge islamica fosse stata introdotta e i musulmani locali seguissero la scuola giuridica Malikita, popolare in Ifriqiya (Nord Africa), essa era combinata con una sconcertante e caotica miscela di Shariʿa, editti militari e governatoriali, leggi romano-bizantine esistenti e costumi regionali. Alla fine, nel 910 il potere passò alla dinastia sciita dei Fatimidi, che si impadronì dell’Ifriqiya e istituì una sofisticata burocrazia per l’isola. Tuttavia, i Fatimidi non fecero assolutamente alcuna impressione dal punto di vista intellettuale, ideologico e teologico e, peggio ancora, diedero licenza formale e incoraggiamento ufficiale ai pirati e ai mercenari musulmani di razziare le coste italiane del Mar Tirreno, grazie alle loro alleanze strategiche con la Grecia bizantina. Metcalfe sostiene sagacemente che questo fu il periodo migliore della Sicilia islamica, dagli anni ‘960 agli anni ‘980, quando emiri (amīr, “comandante”) semi-autonomi governarono l’isola a beneficio degli isolani; Palermo fu ampiamente sviluppata fino a diventare una delle più grandi città dell’Europa meridionale, l’agricoltura prosperò grazie alle tecnologie persiane e cinesi introdotte dagli arabi e il commercio tra l’isola e l’Egitto rese la popolazione piuttosto ricca rispetto agli standard contemporanei. Dopo il trasferimento della dinastia fatimide in Egitto nel 969, tuttavia, la Sicilia islamica venne lentamente percepita come rivale dell’Ifriqiya e si sviluppò un antagonismo tra le potenze regionali, che alla fine minò la sicurezza della Sicilia e portò a una serie di ribellioni fiscali, guerre civili e invasioni.
Nei primi quattro capitoli, Metcalfe analizza dunque il contesto delle invasioni musulmane nella Sicilia “bizantina” ed esamina l’isola sotto il governo dei governanti musulmani Aghlabidi, Fatimidi e Kalbiti, analizzando il processo di trasformazione della Sicilia, in particolare i cambiamenti nella struttura demografica in termini di lingua e religione, causati dalle guerre di conquista che continuarono, a intermittenza, per circa 130 anni. L’autore ricorda che la conquista della Sicilia da parte dei Normanni cristiani nel 1061 fu solo una delle tante campagne militari e invasioni dell’isola condotte all’epoca da stranieri. Trattandosi di uno studio sui musulmani dell’Italia meridionale e della Sicilia, le storie della rinascita bizantina e della conquista normanna sono raccontate solo di sfuggita, con dettagli appena sufficienti a permettere al lettore di collocare gli eventi legati ai musulmani all’interno di un più ampio quadro storico europeo. Metcalfe è tuttavia generoso nel trattare la storia amministrativa normanna perché la maggior parte dei sudditi del giovane regno erano musulmani; i contorni del libro riflettono quindi i contorni della documentazione esistente, che si occupa principalmente, da un lato, del flusso e riflusso della conquista tra le varie potenze cristiane in Italia e le loro controparti musulmane in Ifriqiya e, dall’altro, delle formidabili sfide del tentativo di mantenere la stabilità politica su un’isola in cui si era creata una tale matrice di parametri sovrapposti e di spazi mutevoli all’interno dei quali competeva una popolazione appartenente a varie religioni e riti delle stesse, multietnica e multilingue. Nella misura in cui i materiali lo consentono, l’autore considera anche in modo dettagliato i processi e gli effetti dello scambio culturale, in particolare in relazione alla storia politica e amministrativa: l’aspetto più interessante è la ricettività della corte di Ruggero II d’Altavilla (r. 1130-1154) nei confronti delle influenze greche e arabe, nel momento in cui essa ha forgiato un’identità distintiva a Palermo e ha promosso un governo più centralizzato. Il penultimo capitolo del libro (XIII) affronta anche il ruolo della corte normanna come centro del mecenatismo e dell’erudizione, in particolare la traduzione di fonti greche e arabe in latino, collocandola in un quadro più ampio di traduzione a fini amministrativi. Tuttavia in questo libro c’è ben poco di romantico: sebbene Metcalfe riconosca l’occasionale momento di convivenza e la peculiarità dell’eredità artistica e architettonica arabo-normanna, si rende conto che tali esempi di “cooperazione e buona volontà tra pochi eletti avvennero in un contesto per numerosi altri soggetti fu di tensione e insicurezza ” (p. 1). Come afferma l’autore, la maggior parte delle informazioni sulla Sicilia sotto i dominatori musulmani proviene da fonti arabe scritte fuori dall’isola in un periodo successivo: di conseguenza, la nostra conoscenza è sbilanciata verso gli aspetti politici a cui gli storici musulmani successivi erano interessati o in grado di ottenere. Per compensare questa mancanza di informazioni, Metcalfe cita le varie fonti arabe nel modo più preciso possibile e utilizza la produzione archeologica recente, anche se l’opera del grande arabista siciliano del XIX secolo Michele Amari (1803-1877) Storia dei Musulmani di Sicilia (3 voll., 1858-’72; II ed., 1933-’39), così come le sue raccolte di fonti arabe Biblioteca arabo-sicula (1857-’87), continuano a essere fonti valide e indispensabili. In tutto il libro Metcalfe dimostra la sua profonda conoscenza delle lingue parlate e del graduale passaggio dai dialetti latini e greci a un arabo isolano localizzato, sebbene la sua analisi dell’impatto della lingua araba medievale sulla topografia non sia così rivelatrice. Lo stato attuale della ricerca sulla Sicilia e sull’Italia meridionale dopo la conquista normanna è molto diverso da quello del periodo islamico: abbiamo infatti fonti contemporanee scritte in latino, greco e arabo e un accumulo di ricerche da parte di studiosi internazionali. Questo atteggiamento pragmatico è coerente con la sua esitazione ad attribuire qualcosa di più di una “coscienza proto-crociata” all’opera nell’invasione normanna della Sicilia musulmana e nemmeno quella quando si tratta delle conquiste normanne in Ifriqiya un secolo dopo. In questo libro si presta pochissima attenzione al ruolo che la presenza musulmana ebbe nel legittimare la conquista normanna della Sicilia per quanto riguarda il papato e i cronisti: Metcalfe – che riconosce il suo debito nei confronti di Michele Amari – merita la gratitudine di tutti coloro che insegnano storia del Mediterraneo medievale. La capacità dell’autore di accedere alle fonti in tutte le lingue pertinenti consente una trattazione insolitamente equilibrata, che dedica tanta attenzione all’arabo quanto alla documentazione greca e latina. Laddove le fonti mancano del tutto – il che sembra essere il caso più frequente – l’autore fa del suo meglio non solo per colmare le lacune, ma anche per etichettare ciascuna di esse con un’appropriata avvertenza, inoltre, a corollario di quanto riportato nel testo, inserisce utili mappe e tabelle dinastiche, nonché alcune tavole. Il libro di Metcalfe, basato su studi recenti, esamina le mutate circostanze politiche e l’amministrazione dei governanti normanni, e apporta contributi alle argomentazioni su importanti questioni riguardanti i musulmani, tra le quali – di particolare interesse per l’autore – il dīwān, da lui definito come “un’amministrazione fiscale”, e i villeins (villani). Secondo Metcalfe, i musulmani mantennero il loro ruolo di burocrati incaricati della gestione dell’amministrazione fiscale reale e dei palazzi durante il periodo di costruzione dello Stato normanno e vennero a servire in un’amministrazione fiscale ricostruita (dīwān) nel neonato regno normanno di Sicilia. Gli uffici del dīwān reale si trovavano a palazzo ed erano gestiti da eunuchi di lingua araba. Strumentali all’emissione dei rinnovi delle sovvenzioni erano due uffici, il dīwān al-maʻmūr e il dīwān al-taḥqīq al-maʻmūr. Il dīwān al-maʻmūr, in funzione dal 1136, sovrintendeva in generale all’amministrazione fiscale e alla sua gestione delle terre e degli uomini della corona, e potrebbe anche riferirsi in senso astratto all’intero settore arabo dell’amministrazione. D’altra parte, il dīwān al-taḥqīq al-maʻmūr, operativo dal 1149 e probabilmente anche prima, supervisionava, componeva e verificava le conferme delle concessioni reali di terre e/o uomini. L’arabo dīwān è una parola generica che significa “ufficio”, ma la sua traslitterazione duana/dohana/doana è stata usata (in molti casi, come una frase come duana de secretis e duana baronum) per indicare un ufficio o un’organizzazione specifica nei documenti latini, e c’è una lunga storiografia e controversia sul suo reale significato, anche per quanto riguarda i rapporti tra duana de secretis, duana baronum, dīwān al-maʻmūr, dīwān al-taḥqīq al-maʻmūr, e il sékreton. Metcalfe, la cui comprensione del dīwān si basa sugli studi di Jeremy Johns (Università di Oxford), sottolinea l’importanza dell’influenza dell’Egitto fatimide nell’amministrazione reale e nella regalità normanna, come ha insistito Johns. Tuttavia, la conferma dell’influenza di uno specifico elemento culturale non significa necessariamente che esso abbia avuto un’influenza preponderante sull’amministrazione reale; è infatti importante vedere come e in quale forma questi elementi culturali esistevano nell’amministrazione reale. Per quanto riguarda le relazioni corrispondenti tra termini latini, greci e arabi, sono tuttavia necessari ulteriori approfondimenti. L’altra importante questione che sta particolarmente a cuore all’autore, quella dei villani nel Regno normanno di Sicilia, è stata analizzata in precedenza da diversi studiosi, e molti di questi sembrano aver concluso che i villani erano classificati in due gruppi fondamentali: quelli che dovevano un servizio ereditario di persona (intuitu personae) e quelli che dovevano un servizio rispetto ai termini del loro contratto di affitto della terra (respectu tenimentorum), anche se non c’è accordo di opinioni su quale parola nei documenti arabi, greci e latini si riferisca a quale categoria di villani. Anche gli studiosi che hanno recentemente esaminato in dettaglio i documenti arabi, sembrano condividere l’idea della classificazione dei villani in due gruppi. Secondo Metcalfe, molti termini erano usati come sinonimi in tre lingue per riferirsi ai villani, e quelli in arabo e greco possono essere risolti in due categorie fondamentali: le famiglie “registrate” e quelle “non registrate”. Seguendo l’idea di Johns, egli spiega che coloro che erano “registrati” erano chiamati ḥurš (“uomini ruvidi”), o riğāl (ahl) al-ğarā’ id in arabo, ed enapógraphoi (“i registrati”) in greco, mentre coloro che erano “non registrati” erano chiamati muls (“uomini lisci”) in arabo, ed exōgraphoi (“i non registrati”) in greco.
Questo libro, incentrato sui musulmani, mostra ampiamente l’affascinante storia della Sicilia medievale e dell’Italia meridionale, con i suoi numerosi strati di culture diverse, e rivela vari aspetti delle attività interculturali sotto i Normanni: scoprire il vero quadro di questo complicato passato richiede sforzi e competenze minuziose, tra cui l’analisi di manoscritti multilingui, ma tale ricerca ci fornirà senza dubbio maggiori opportunità di riesaminare i quadri e i concetti spesso utilizzati inconsapevolmente e senza un serio esame da generazioni di studiosi. Inoltre, la particolare posizione della Sicilia medievale e dell’Italia meridionale, ai confini di tre zone culturali (arabo-islamica, latina e romana orientale/bizantina), rende possibile l’analisi di tre diversi elementi culturali all’interno dello stesso contesto, e offre un prezioso e raro punto di osservazione da cui cogliere l’immagine di una più ampia unità geografica dove queste diverse culture interagirono. Ogni capitolo si conclude con un modesto numero di note, che indirizzano il lettore verso alcuni degli studi più importanti del settore. Il capitolo finale descrive nei dettagli le rivolte comunali musulmane sotto il dominio degli Hohenstaufen e poi degli Angioini nel XIII secolo, fino alla creazione e soppressione della colonia saracena di Lucera sotto Carlo II d’Angiò (r. 1285-1309), ma non riesce a fornire una conclusione soddisfacente – una panoramica dell’intero libro e del periodo che copre. Tuttavia, l’utilità del libro sarebbe stata di più grande rilevanza per gli studiosi, laddove supportata da riferimenti bibliografici che, purtroppo non sono presenti. In alternativa, data la scarsa familiarità che alcuni lettori non specialisti di Mondo islamico medievale possono avere dei materiali di partenza (così come delle fonti) sarebbe stata di grande utilità un riferimento o una nota preliminare sulla loro tipologia e limiti. Il libro comunque, sarà sicuramente apprezzato soprattutto dagli addetti del settore, ovvero gli storici e coloro che sono interessati alle relazioni tra cristiani e musulmani nel Mediterraneo centrale medievale tra i secoli IX e XIV.