Bianciardi, alla ricerca dell’astronave madre
Alcune persone passano la loro intera esistenza a cercare il proprio posto nel mondo, in balia dei venti avversi e delle iniquità a cui la vita ha deciso di esporli. Non avere una guida equivale a dover studiare le mappe al buio con una torcia che funziona ad intermittenza: ecco cosa si prova ad essere Luciano Bianciardi. La sua esistenza è costellata di alti e bassi, un rapporto splendido con il padre e quasi inesistente con la madre, una gioventù da attivista politico clandestino ed un impegno costante nella militanza culturale. Nato nel 1922 a Grosseto e pargolo del novecento, visse in prima persona la seconda guerra mondiale, restando amareggiato dalla propria esperienza militare. Nel periodo postbellico riuscì persino a laurearsi e a mettere su famiglia. Tutto sembra andare a gonfie vele, dai viaggi nel Bibliobus attraverso le campagne per arginare uno di quei malanni sociali che è l’ignoranza, passando per le pubblicazioni editoriali su giornali come Belfagor e l’Avanti, fino ad arrivare alla collaborazione in qualità di traduttore con la Feltrinelli.
Le cose però non sembrano andare come previsto, tanto che dall’ultima casa editrice, Luciano viene licenziato a causa della poca voglia di lavorare, come accade ai pigri o a chi è destinato verso cose più grandi. Sembra che riuscisse a personificarli perfettamente entrambi, abilità dei sognatori eterni. Un’inchiesta e tre romanzi servono a capire chi fosse veramente Bianciardi: l’opera prima intitolata “I minatori della maremma”, pubblicata per dare voce alla categoria di uno dei mestieri più tristi e difficili del suo tempo. Con “Il lavoro culturale” e “L’integrazione”, romanzi autobiografici ed umoristici, distrugge il mito della mentalità aziendale appartenente all’editoria milanese, del tutto incomprensibile per uno come lui, figlio di un’effettività completamente differente. Con “La vita agra” raggiunge il suo apice. Il racconto narra la storia immaginaria di un anarchico inferocito contro il nuovo modello economico di una società che non sente appartenergli in alcun modo, tanto da fargli venire voglia di architettare un attentato terroristico.
Bianciardi vive in tutte le sue opere, gridando la sua insoddisfazione contro un’epoca che sembrava castigarlo ogni volta perché insofferente verso le nuove regolamentazioni. Un pessimo rapporto con il grande local milanese con cui è costretto ad interagire per esigenze lavorative, in cerca di una vera e propria dimora per lo spirito ed i suoi pensieri. Se fosse rimasto ancorato alla propria realtà, probabilmente non avrebbe potuto denunciare le sue insoddisfazioni verso chi mette tutto in vendita. Un sacrificio che gli costò la felicità e non solo.
Negli ultimi anni l’alcolismo picchia sempre più forte, a nulla serve il riavvicinamento a Milano, ormai è troppo tardi. Si spegne a 48 anni, nel 1970 per colpa di una cirrosi epatica, nel capoluogo lombardo. Per lui un immeritato finale bastardo, sopportabile soltanto da chi conosce veramente l’ampio dolore dell’incomprensione.
Luciano ma che hai combinato, hai incendiato tutto con le tue parole, odiando così profondamente il tuo tempo fino a consolarti con l’autodistruzione. Hai malmenato le orme dell’imprenditoria fino a lasciare che il senso dell’inadeguatezza riuscisse ad inghiottirti, addormentando i patimenti e cercando di fermare il dolore con il bicchiere della staffa. Stavi aspettando l’arrivo di un’astronave madre che ti portasse via con sé, verso una galassia priva di superficialità, un posto in cui la cultura non fosse il sinonimo di consumo ma strumento per il risveglio della coscienza.
Un grido inascoltato racchiuso nei tuoi anni, uno come te deve aver pensato anche ai saluti della sua rancorosa lettera d’addio, del tipo “Con rabbia e speranza, L. Bianciardi”.