L’artista, il sacro e il Mediterraneo: conversazione con Pietrangelo Buttafuoco

Il parlare di Pietrangelo Buttafuoco non è mai solo contenuto ma risuona anche come naturale metrica. La parola scorre seguendo un ritmo antico e sembra riconoscere la musicalità di un’atavica melodia, come mare ondeggia in uno sciabordare che si fa armonia in punta di lingua. La conversazione non è semplice intervista ma, come spiega l’etimo, è il condividere lo stesso tempo e momento, il trovarsi tra le parole.
In numerose interviste ha scelto di opporre un secco rifiuto all’appellativo d’intellettuale, preferendo la parola artista. Che cosa significa per lei essere un artista e qual è oggi in Italia il ruolo dell’artista
L’artista presuppone una costruzione, una creazione che fa affidamento su delle tecniche ben precise, possono essere quella, ad esempio, della scrittura o della regia. Delle tecniche che ovviamente per essere adeguatamente coerenti al rango dell’arte possono fare affidamento, sicuramente su un tanto di presunzione, ma soprattutto su una capacità artigianale tale da poter consentire la costruzione di un progetto e la sua realizzazione.
Sia nella forma di scrittura, può essere un intervento, un romanzo o una costruzione drammaturgica, sia nel riferire sulla scrittura si adottano delle tecnicalità che corrispondono ad un antico mestiere quello degli “scalvacamontagne”.
L’intellettuale è una questione totalmente diversa, riguarda una serie di competenze, di riflessioni e di analisi. In Italia l’ultimo che ha avuto questo ruolo è stato Leonardo Sciascia. In Italia, in Occidente oggi, prevale la tuttologia, nel senso che ti ritrovi ad essere interrogato sugli argomenti più disparati senza averne nessuna conoscenza, ma si tratta del cosiddetto messaggio Pop.
Non a caso l’opinionista è tra le figure più diffuse oggi in Italia…
L’opinionista fornisce pareri non vincolati da competenze che possano sancire l’esatta proposizione adatta alla realtà, come se al mattino al bancone del bar incontrassimo un amico e prendendo il caffè ci chiedesse un parere in assoluta liberalità.
Nella prefazione del libro, da lei curato, “Il mio Leo Longanesi” scrive di essere stato forgiato dagli scritti del fondatore del Borghese. Come scrive nell’incipit dell’antologia, il suo rapporto con Longanesi è anche strettamente legato alla figura di suo padre, grande ammiratore del “nano” di Strapaese e suo iniziatore ai piaceri della penna di Longanesi. Che cosa rappresenta per lei la figura di Longanesi?
Me lo sono ritrovato in casa, nel senso che sono cresciuto vedendo impilare le copie del Borghese, vedendo impilare i libri di Leo Longanesi o i testi da lui editati. Crescendo, avendo gli strumenti per affrontare quella prosa, ne ho apprezzato non solo la capacità di andare dritto al punto, ma anche la finezza e la particolare lingua adoperata nonché la versatilità degli strumenti, soprattutto il disegnare e l’accompagnare alla grafica la grazia di un’impostazione che è totalmente coerente con l’idea di un’Italia nella modernità.
Longanesi ha questo vantaggio: di essere versatile e di essere aperto a tutte le sperimentazioni dell’arte, dal giornalismo alla fotografia, dal cinema alla grande commedia. Studiando ho potuto dire serenamente che lui completa il terzo capitolo della grande commedia italiana che comincia con Carlo Goldoni, prosegue con Giacchino Rossini e si completa con Leo Longanesi.
Longanesi, insieme a Mino Maccari, sono stati protagonisti della stagione di “Strapaese”, movimento culturale e letterario. Secondo lei, il pensiero di Strapaese, basato su una modernità radicata nella tradizione italiana può oggi essere culturalmente riattivato come alternativa ad un processo di modernizzazione a guida americana?
Tutto è possibile. Eravamo convinti che la storia fosse finita con Francis Fukuyama. Eravamo convinti che ci si avviasse verso il compimento della globalizzazione, ma la guerra in corso e il cambio di prospettiva rispetto al c.d. ordine mondiale ha condotto ad un inciampo di questo processo. Una forma aggiornata di Strapaese poteva essere il concetto di glocal: individuare attraverso il processo di globalizzazione le specificità locali. Esiste, in tal senso, anche una sorta di sperimentazione che è legata all’urbanistica, l’invenzione delle smart cities.
Tutto questo permette di capire che la molteplicità delle esistenze genera quasi come un agglomerato molecolare, delle tante diverse forme di espressione che poi trovano spazio, poi spariscono e riappaiono come essenze quasi gassose. Cosa succederà? Quello che da sempre è successo nel mondo, una dialettica tra un’idea di organizzazione del mondo, definibile come dominium, dove tutto viene livellato e misurato secondo un unico parametro, dall’altro lato l’imperium, un’idea di mondo imperiale che contiene, presuppone e garantisce le varie identità. È una dialettica che esiste da sempre nell’agone della politica per eccellenza chiamato terra.
In un’intervista al giornalista Alain Elkann, nel 1990, Indro Montanelli profetizzava la fine dell’Italia come entità nazionale, un paese senza futuro colpevole di essere dimentico del proprio ieri. Diverso, spiega Montanelli, il domani degli italiani, ormai spogli della propria identità e pronti ad essere assorbiti dalla fluidità dei processi globali. È d’accordo con questa visione di Montanelli?
La penso diversamente. A mio modo di vedere esistono gli italiani attraverso i loro caratteri, le loro storie e costanti nel tempo. All’interno della parola italiani c’è una fatica nell’individuare il termine Italia, concetto che nella storia ha interessato fenomeni che vanno bene oltre il 1861. Un’idea di Italia è ancestrale, remota, antica. Probabilmente c’è e appartiene al mondo dei sogni, probabilmente non si è mai inverata ma bisogna fare i conti con la concretezza. Ad oggi vale ancora la famosa definizione che l’Italia è ‘solo un’espressione geografica’ e lo è a tutti gli effetti, non essendo altro che non ha nessuna sovranità.
Esistono gli italiani nel senso che questi hanno saputo attraversare i secoli tra risse, fratricidi e i continui dissidi, anche coabitando con diverse identità che sono state espressione di potere ma che hanno accompagnato anche momenti di vera grandezza, dal Medioevo per arrivare al Rinascimento fino ai secoli più recenti. Se posso cavarmela, me la cavo con il famoso teorema di Orson Wells quando disse che il nostro è un racconto fatto di stupri, omicidi, saccheggi, latrocini e avvelenatori, ma abbiamo determinato la grandezza del Rinascimento.
In tal senso il filosofo Roberto Esposito, nel suo scritto il “Pensiero Vivente”, ha sottolineato il carattere unico della filosofia italiana che pone al suo centro la categoria della vita, in una sorta di movimento rivolto all’esterno che le consente di non essere imbrigliata in sé stessa. Per le sue caratteristiche, il pensiero italiano può essere un modello?
Abbiamo un grande vantaggio che è l’Universalità. Tutto ciò che nasce in Italia può essere accolto e recepito nell’intero mondo tanto che puoi considerare Borges un grande del pensiero italiano pur essendo nato a Buenos Aires. Tanti pensatori hanno avuto un taglio o un’impostazione totalmente italiana, nella letteratura contemporanea un altro esempio è Ezra Pound ma anche lo stesso T. S. Eliot fino ad andare a scavare in quello che è stato il percorso universale che è sconfinato nell’idea stessa di Roma e di Atene come i due momenti attraverso i quali l’umanità ha conosciuto questo senso dell’Universale. Un pensiero vivente, forte, che non trova però corrispondenza nelle strutture istituzionali.
Vien facile immaginare la Casa Italia attraverso le cantiche di Dante Alighieri, ma difficile immaginare che la Casa Italia possa essere coerente con Dante e con i geni dell’arte o della stessa scienza italiana. Basti pensare che il fondamento del pensiero scientifico-tecnologico trova triplice radice in Leonardo, Galilei e Marconi. Questo della scienza è un segmento fondamentale che è coerente con la contemporaneità ma di cui non abbiamo nessuna consapevolezza, elemento che ci rende ancora di più remoti e privi della contezza di ciò che siamo.
Lo storico Fernand Braudel scriveva in tal senso che “essere stati è una condizione per essere”… Braudel, del resto, è stato anche fine interprete della civiltà del Mediterraneo e cantore dei suoi flutti. Per lei, pungente voce di Sicilia, qual è o dovrebbe essere il ruolo dell’Italia nell’area mediterranea e il suo personale rapporto, anche da siciliano, con il Mediterraneo?
Il Mediterraneo rappresenta ancora una volta l’Universale. Non è un lago inutile, noi sappiamo perfettamente che la maggior parte delle nazioni che aderiscono all’Unione europea non ha nessun interesse verso il Mediterraneo, al contrario del mondo intero che invece nutre per esso un forte interesse. Per non altro per il fatto che ora sono due le bandiere che lo presidiano, stranamente due bandiere imperiali, quella della Russia e della Turchia.
L’Italia ha trascurato, forzatamente forse, il Mediterraneo e con l’operazione in Libia ha perso il controllo di quello che era il nostro principale polmone economico. Non averne consapevolezza è un’altra di quelle tare che accompagnano gli italiani nel non sapere che cosa si è nella propria identità e nel profondo.
Il Mediterraneo non è una chimera poetica ma è sostanza economica, commerciale e transito attraverso il quale il Pacifico guadagna le rotte commerciali, la metà finale della via seta ma anche la culla di quella temperie fatta di sentimenti, parole ed estetica che accompagnano il percorso della presenza dell’uomo e delle civiltà nel mondo.
Non averlo capito è accompagnato da una buona e precisa malafede altrui che ha condotto a toglierci la consapevolezza del Mediterraneo. Questo in ragione del fatto che il Maghreb viene considerato solo come una stazione di sosta di uomini e di popoli, una sorta di arsenale che trasforma quegli uomini in bombe migratorie. Lo abbiamo visto in Siria e con operazioni sempre più sporche per far si che attraverso quella marea il Continente europeo collassi. Sono dei pedaggi che devono costringerci a capire che l’uomo è il lupo dell’uomo e che la volontà di potenza si dispiega attraverso un’azione di guerra o conflitto. Di tutto ciò è necessario avere consapevolezza: la futura Unione Europea è proiettata verso il baltico, accompagnata dalla Nato. Il Mediterraneo è il luogo della vita, delle giovinezze e delle energie che fecondano il Continente.
La gabbia d’acciaio della contemporaneità sembra aver accelerato il processo di disicantamento del mondo di matrice weberiana e aver condotto ad una progressiva attenuazione del mistero del sacro nel nostro quotidiano. Pensa che sia effettivamente così e lo ritiene un processo irreversibile?
È una questione che riguarda soltanto il nostro ambito e non gli altri. Il sacro non latita mai rispetto ai propri dovere. È come l’idea dell’Aletheia, della verità che si disvela, così il sacro ha ovviamente delle sue forme, non fosse altro che si accompagna o al segreto o al mistero. Io credo che sia soltanto una questione che riguarda noi. C’è un film in bianco e nero con Anthony Quinn che interpreta Attila, ambientato nella corte di Ravenna. Questa viene rappresentata ne più ne meno che fosse un backstage di una sfilata di Dolce e Gabbana finché non giunge Attila a prendersi tutto.
La storia dell’umanità è fatta di passaggi e trasformazioni, c’è chi ha il passo dei millenni e chi il passo pop della volatile e fugace presenza social. Da sempre è successo che ci siano stati questi scambi, questi passaggi, indifferentemente dai luoghi geografici. Il sacro non se ne è mai andato, naturalmente altrove ha una preponderanza maggiore ma anche nelle forme parodistiche fa capolino in ogni situazione.
Nell’era delle passioni tristi anche la politica sembra aver ceduto il passo, aver perso la sua missione. Pensa che oggi sia ancora possibile una militanza politica autentica? Vivere per la politica e non di politica?
È impossibile estirpare l’istinto politico dall’umanità. Esiste poi una questione di gradazione e di livelli. La difficoltà obiettiva di fare politica in Italia è, non essendoci effettiva sovranità, di doverti muovere dentro un determinato perimetro. Appena ti muovi al di fuori di queste coordinate finisce male da tutti i punti di vita. È una sorta di gioco delle parti, non c’è dubbio che esista in ogni caso questo istinto a far politica. Mi perdonerete se uso una metafora da commedia. Prezzolini avrebbe usato la distinzione tra furbi e fessi: la storia d’Italia ha sempre avuto questa logica. Le istituzioni massime di oggi, i più grandi protagonisti del dibattito culturale della scena italiana nel 2022, se li spostiamo in un’altra epoca sarebbero gli stessi però in orbace a fare la marcia sulla via dell’Impero, ma sarebbero gli stessi.
È ovvio che in Italia c’è stata sempre la distinzione tra furbi e fessi. Un grande film di Totò, “Uomini e caporali”, faceva esattamente questa distinzione. Un caporale che aveva prima l’uniforme borbonica, che poi aveva l’uniforme piemontese e sabauda, poi ancora aveva la camicia nera e il fazzoletto del partigiano, infine la grisaglia del democristiano. Inevitabilmente sempre e comunque quella stessa faccia, il caporale nella grande fureria chiamata Italia.
Damiano Rossi-Lorenzo Bruno